You can not select more than 25 topics Topics must start with a letter or number, can include dashes ('-') and can be up to 35 characters long.
 

52 KiB

Duello

(Dogfight, 1985)

Aveva intenzione di proseguire senza fermarsi fino in Florida. Pagarsi il

passaggio lavorando su qualche nave di contrabbandieri d'armi, magari finire

per farsi arruolare in qualche esercito ribelle del cazzo nella zona di guerra. O

magari, con il biglietto valido finché non interrompeva la corsa, poteva non

scendere mai. . l'Olandese Volante dei Greyhound. Rivolse un sogghigno alla sua

immagine riflessa sul finestrino freddo e sporco, mentre le luci del centro di

Norfolk scivolavano via e il pullman ondeggiava sugli ammortizzatori stanchi,

eseguendo l'ultima curva. Si fermarono con uno scossone sul parcheggio della

stazione, cemento grigio illuminato come il cortile di una prigione. Ma Deke si

vedeva morire di fame, magari in una tempesta di neve dalle parti di Oswego,

con la guancia appoggiata allo stesso finestrino, e vedeva i suoi resti spazzati via

alla fermata successiva da un vecchio biascicante con addosso una tuta da lavoro

sbiadita. Decise che in un modo o nell'altro non gliene fregava un accidente. Se

non che le gambe gli sembravano già morte. L'autista annunciò una sosta di

venti minuti: Tidewater Station, Virginia. Era un vecchio edificio in blocchi di

scorie pressate con due entrate per ciascun bagno: un relitto del secolo

precedente.

Con le gambe come due pezzi di legno, fece un mezzo tentativo di rubacchiare

dal banco degli articoli vari, ma la commessa negra sorvegliava le scarse merci in

mostra dietro il vecchio espositore di vetro come se ne andasse del suo culo.

“Probabilmente è così” pensò Deke, voltandosi. Di fronte ai bagni c'era una porta

aperta con la parola GIOCHI che lampeggiava debolmente in plastica

biofluorescente. Si vedeva un gruppo di fannulloni locali raccolti attorno ad un

tavolo da biliardo. Pigramente, con la noia che lo seguiva come una nuvola, infilò

dentro la testa. E vide un biplano, le ali non più lunghe del suo pollice, che

eruttava fiamme arancioni. Precipitando a vite, lasciandosi dietro una scia di

fumo, svanì nell'istante in cui colpì il feltro verde del tavolo.

— Bravo Tiny! — gridò uno dei fannulloni — fallo fuori quel figlio di puttana!

— Ehi — disse Deke — che succede?

L'uomo più vicino era alto e magro come un palo, con un berretto a visiera in

rete nera. — Tiny difende la Max — disse senza staccare gli occhi dal tavolo.

— E che roba è? — Ma proprio mentre lo chiedeva, la vide. Una medaglia in

smalto blu a forma di croce di Malta, con la dicitura “Pour le Mérite” suddivisa

fra le braccia.

La Max Blu era appoggiata sul bordo del tavolo. Proprio di fronte a una massa

di grasso immobile incastrata in una sedia cromata apparentemente fragile. Se

Deke si fosse infilato la camicia da lavoro color kaki dell'uomo, gli sarebbe

ricaduta addosso come una vela, ma sul suo stomaco rigonfio era tesa a tal punto

che i bottoni sembravano sul punto di strapparsi da un momento all'altro. Deke

ricordò dei soldati sudisti che aveva visto lungo la strada: quell'endotipo grosso

di pancia bilanciato su gambe dinoccolate che sembravano prese in prestito da

un altro corpo. Tiny, in piedi, avrebbe potuto assomigliare a uno di quelli, ma su

scala maggiore: jeans con la vita da un metro. Ci sarebbe voluta una cintura di

acciaio per sostenere tutti quei chili di pancia rigonfia. Se Tiny si fosse mai alzato

in piedi. (Deke si era accorto che la struttura cromata era in realtà una sedia a

rotelle). C'era qualcosa di infantile in maniera inquietante nella faccia dell'uomo:

un accenno spaventoso di giovinezza, perfino di bellezza nei tratti quasi sepolti

sotto pieghe di grasso. Imbarazzato, Deke distolse lo sguardo. L'altro uomo,

quello in piedi dal lato opposto del tavolo, aveva basette folte e una bocca sottile.

Sembrava che stesse cercando di spingere qualcosa con gli occhi, rughe di

concentrazione che si irradiavano dagli angoli. .

— Sei scemo, tu? — L'uomo con il berretto a visiera si voltò, e si accorse per la

prima volta dei vestiti da proletario di Deke, in cotone indiano, e delle catene che

portava ai polsi. — Alza il culo, coglione. Non sei il benvenuto, qui. — Tornò a

guardare il duello aereo.

Si scommetteva. I fannulloni tiravano fuori soldi veri, quelli di una volta:

dollari con la testa della libertà, e dieci centesimi di Roosevelt provenienti da

negozi di numismatica, mentre i più cauti mettevano sui tavoli banconote

antiche ricoperte di plastica trasparente. Dalle nuvole di fumo spuntarono tre

aerei rossi, che volavano in formazione. Fokker D 7. Nella sala si fece il silenzio. I

Fokker virarono maestosamente sotto il disco solare di una lampadina da 200

watt.

Lo Spad blu sbucò dal nulla. Altri due calarono dal soffitto in ombra,

seguendolo a breve distanza. I fannulloni imprecarono, uno ridacchiò. La

formazione si disperse. Uno dei Fokker scese quasi fino al tavolo, senza scrollarsi

lo Spad che lo tallonava. Partì freneticamente a zigzag sulla verde pianura, senza

risultato. Alla fine si alzò, il nemico alle calcagna, troppo verticalmente. . e andò

in stallo, troppo basso per riuscire a risollevarsi.

Una pila di monete d'argento cambiò di mano. I Fokker adesso erano in

svantaggio. Uno aveva due Spad in coda. Una scarica di proiettili traccianti,

sottili come aghi, sfiorò la cabina di guida. Il Fokker scivolò a sinistra, virò in un

Immelmann e si trovò dietro a uno dei suoi inseguitori. Sparò e il biplano cadde

a vite.

— Forza, Tiny! — I fannulloni si strinsero attorno al tavolo.

Deke era impietrito dalla meraviglia. Gli sembrava di essere rinato.

Il Truck Stop di Frank si trovava tre chilometri fuori città, sulla strada

riservata ai veicoli commerciali. Deke se l'era mentalmente annotato, per

abitudine, mentre arrivavano con il pullman. Rifece la strada al contrario, fra le

barriere di cemento e il traffico. Autocarri articolati gli passavano accanto,

enormi, a otto segmenti, e ogni volta gli sembrava che lo spostamento d'aria lo

buttasse a terra. Le stazioni dei veicoli commerciali erano bersagli facili. Quando

entrò bighellonando da Frank, nessuno dubitò che venisse da uno dei grossi

autocarri, e poté curiosare fra i banchi dei regali come voleva. L'espositore con le

piastrine di wetware proiettivo era situato fra una pila di camicie coreane da

cowboy e una serie di parafanghi Fuzz Buster. Un paio di draghi orientali si

contorcevano nell'aria sopra l'espositore. Non si capiva se combattevano o

scopavano. Il gioco che voleva era lì: “una piastrina etichettata spads & fokkers”.

Gli ci vollero tre secondi per impadronirsene ancora meno per far scivolare la

calamita (che i poliziotti di Washington non si erano neppure preoccupati di

confiscargli) sulla striscia magnetizzata di allarme.

Nell'uscire rubò due unità di programma e un piccolo telecomando Batang,

che assomigliava a un obsoleto apparecchio acustico.

Scelse un ostello a caso e raccontò all'addetto la storiella che aveva sempre

usato da quando gli era stato tolto il diritto all'assistenza sociale. Nessuno

controllava mai; lo stato si limitava a contare le stanze occupate e a pagare.

Nella stanzetta c'era un vago odore di urina. Qualcuno aveva scritto sulle

pareti slogan del Fronte di Liberazione Anarchico. Deke gettò via a calci la

spazzatura da un angolo, si sedette con la schiena appoggiata al muro e aprì la

confezione con la piastrina. C'era un foglietto di istruzioni, con diagrammi di

looping, viti orizzontali, Immelmann; un tubetto di pasta salina e una lista di

specifiche operative per il computer. E la piastrina, in plastica bianca, con

biplano e scritta blu da una parte, rosso dall'altra. Se lo rigirò fra le mani:

“Spads&Fokkers”, “Fokkers&Spads”. Rosso o blu. Si aggiustò il Batang dietro

l'orecchio, dopo aver cosparso di pasta la superficie induttiva, inserì il nastro a

fibre ottiche nel programmatore e attaccò il programmatore alla spina della

parete. Poi infilò la piastrina nel programmatore.

Era un apparecchio economico, indonesiano, e sentiva un fastidioso ronzio

alla base del cranio mentre il programma veniva caricato. Poi uno Spad azzurro-

cielo volteggiò nell'aria a pochi centimetri dalla sua faccia. Era così reale che

quasi brillava. Possedeva quella strana vita interiore che spesso hanno i

modellini ben dettagliati, ma gli ci voleva tutta la sua concentrazione per

mantenerne l'esistenza. Bastava distrarsi un attimo perché si trasformasse in

una macchia indistinta. Si esercitò fino a quando la batteria del telecomando non

si esaurì, poi si accasciò contro la parete e si addormentò. Sognò di volare in un

universo formato interamente da nuvole bianche e cielo azzurro, senza alto né

basso, e nessun campo verde contro cui schiantarsi.

Si svegliò con nelle narici l'odore rancido di una polpetta di krill che friggeva,

e fece una smorfia per la fame. Non aveva un soldo. Be', c'erano un sacco di

studenti nell'ostello. Ne avrebbe trovato qualcuno disposto a comprare un'unità

di programmazione. Uscì sul corridoio con una delle due unità che aveva rubato.

Poco più avanti trovò una porta con un poster attaccato: “c'è un universo

meraviglioso dietro l'angolo”. Sotto c'era un cielo stellato con un mucchio di

pillole multicolori ritagliate dalla pubblicità di qualche azienda farmaceutica,

incollato su una fotografia molto suggestiva della “colonia spaziale” che era in

costruzione da prima che lui fosse nato. “Andiamo” diceva il poster, sotto il

collage di pillole soporifere.

Deke bussò. La porta si aprì, bloccata da un catenaccio di sicurezza.

Vide cinque centimetri della faccia di una ragazza. — Sì?

— Probabilmente penserai che l'abbia rubato. — Si passò il programmatore

da una mano all'altra. — Cioè, perché è nuovo, praticamente vergine, ha ancora il

codice a barre. Senti, non voglio discutere. No. Lo puoi avere per la metà di

quello a cui lo pagheresti da qualsiasi altra parte.

— Ehi, dici davvero? — La parte visibile della bocca si piegò in uno strano

sorriso. Allungò la mano con il palmo verso l'alto, le dita contratte. All'altezza del

mento di Deke. — Guarda qui! Aveva un buco nella mano, un tunnel nero che le

penetrava nel braccio. Due piccole luci rosse. Occhi di topo. Sgattaiolarono verso

di lui diventando più grandi e più luminose. Qualcosa di grigio uscì dal buco e gli

balzò verso la faccia.

Deke urlò, alzando le mani per ripararsi. Le gambe gli cedettero, cadde,

schiacciando il programmatore sotto di sé. Frammenti di silicato si sparsero in

giro mentre lui si contorceva sul pavimento, stringendosi la testa fra le mani.

Sentiva un dolore terribile.

— Oh Dio mio! — Il catenaccio si aprì, e Deke vide la ragazza china su di sé. —

Ascolta, tieni questo. — Lasciò penzolare un asciugamano azzurro. — Prendilo,

che ti tiro su.

Lui la guardò con gli occhi velati di lacrime. Studentessa. Aspetto ben nutrito,

camicia larga, denti così dritti e bianchi che sembravano delle referenze. Una

catenina d'oro attorno a una caviglia coperta da una sottile peluria da bambino.

Capelli tagliati corti, alla giapponese. Ricca. — Quella roba era la mia cena —

disse lugubremente. Afferrò l'asciugamano e si lasciò aiutare.

Lei sorrise, ma si ritrasse rapidamente. — Te lo ripagherò — disse.

Vuoi da mangiare? Era solo una proiezione, okay?

Lui la seguì, guardingo come un animale che entri in una trappola.

— Puttanaeva — disse Deke — questo è formaggio, formaggio vero!.. — Era

seduto su un sofà a molle incastrato fra un orsacchiotto in peluche alto un metro

e mezzo e una pila traballante di floppy disk. Il pavimento era coperto di libri,

vestiti, giornali. Ma il cibo che lei gli aveva portato come per magia era

incredibile: formaggio olandese, carne in scatola e crackers di autentico grano di

serra. . roba da Mille e Una Notte.

— Ehi — disse lei. — Qui si sa come trattare un proletario eh? — Si chiamava

Nance Bettendorf. Aveva 17 anni. Entrambi i genitori lavoravano (bastardi avidi)

e lei studiava ingegneria alla William and Mary. Aveva il massimo dei voti,

tranne in inglese. — Devi avere qualcosa con i topi, tu. Una specie di fobia.

Lui gettò un'occhiata al letto. Non si vedeva, in effetti: solo un rigonfiamento

nello strato di roba che copriva il pavimento. — Non è per quello. Solo che mi ha

ricordato qualcos'altro.

— Cosa? — Si accoccolò di fronte a lui, la camicia che le scopriva una coscia

morbida.

— Be'.. Non hai mai visto — alzò involontariamente la voce, pronunciando in

fretta le parole — il “Washington Monument”? Di notte? Ha quelle due piccole. .

luci rosse in cima, per gli aerei o qualcosa del genere, e io. . — Cominciò a

tremare.

— Hai paura del Washington Monument? — Nance rise come una matta,

rotolandosi, agitando le lunghe gambe abbronzate. Indossava il pezzo inferiore

di un bikini color cremisi.

— Preferirei morire piuttosto che doverle rivedere — disse lui con voce

pacata.

Lei smise di ridere, si sedette, lo scrutò in faccia. Si mordicchiò il labbro

inferiore con i denti bianchi, regolari, come se le stesse venendo in mente

qualcosa a cui avrebbe preferito non pensare. Alla fine disse. — Un blocco

mentale?

— Sì — disse lui. — Mi hanno detto che non sarei più tornato a Washington.

Poi si sono messi a ridere, quei rottinculo.

— Perché l'hanno fatto?

— Sono un ladro. — Non aveva intenzione di dirle che l'accusa era di furto

continuato nei negozi.

— Un sacco di gente passava la vita a programmare i computer. E sai cosa? Il

cervello umano non assomiglia neanche lontanamente a una macchina. Non si

programmano allo stesso modo. — Deke conosceva quel modo di chiacchierare

acuto, disperato, quei lunghi e prolissi discorsi che la gente sola racconta ai rari

ascoltatori; lo ricordava da cento notti fredde e vuote, passate in compagnia di

estranei. Nance ci si era persa, e Deke, mentre annuiva e sbadigliava, si chiese se

sarebbe riuscito a rimanere sveglio quando finalmente si fossero messi in quel

letto.

—L'ho costruita io quella proiezione di prima — disse lei stringendosi le

ginocchia sotto il mento. — Serve per i rapinatori, sai. Ce l'avevo con me per

caso, e te l'ho buttata in faccia perché ho pensato che era proprio divertente, tu

che cercavi di vendermi quella stronzata di programmatore indogiavanese. — Si

inginocchiò e allungò di nuovo la mano. — Guarda qui. — Derek si ritrasse. —

No, no, non preoccuparti, te lo giuro, è diverso. — Aprì la mano. Una fiamma blu

le danzava sul palmo, perfetta e continuamente mutevole. — Guardala — disse.

— È stupenda. L'ho programmata io. Non è una delle solite robe a sette

immagini. È un ciclo continuo di due ore, 7200 secondi, mai due volte la stessa,

cazzo, ogni istante unico come un fiocco di neve!

Il cuore della fiamma era un cristallo di ghiaccio, frammenti e sfaccettature

che schizzavano in alto, si contorcevano, sparivano, lasciandosi dietro immagini

quasi subliminali, così luminose e definite che tagliavano l'occhio. Deke fece una

smorfia. Soprattutto persone. Gente carina e nuda, che scopava. — Come diavolo

hai fatto? Lei si alzò, scivolando con il piede nudo su una rivista di carta patinata,

e con gesto melodrammatico scostò delle strisce di modulo continuo da uno

scaffale in compensato grezzo. Deke vide una fila di piccoli apparecchi, austeri e

dall'aria costosa, costruiti su ordinazione. — Questa qui è roba seria. Facilitatore

d'immagine. Modulo di cancellazione rapida. Analizzatore di funzione con

mappa cerebrale. — Snocciolava i nomi come una litania. — Stabilizzatore

quantico di tremolio. Giuntatore di programmi. Assemblatore di immagini. .

— E ti serve tutta quella roba per fare una fiammella?

— Puoi dirci giuro. Queste apparecchiature sono il massimo in circolazione,

professionali. Sono anni avanti rispetto a qualsiasi cosa abbia visto in vita tua.

— Ehi — disse lui. — Mai sentito parlare di “Spads & Fokkers”?

Lei rise. E allora gli parve che fosse il momento giusto, così fece per prenderle

la mano.

— Non toccarmi, figlio di troia, non toccarmi mai! — urlò Nance, e sbatté la

testa contro il muro mentre si ritraeva, pallida e tremante per il terrore.

— Okay! — Deke alzò le braccia. — Okay! Sto lontano. Okay?

Lei lo teneva a distanza, con occhi grandi immobili. Le lacrime raccolte agli

angoli degli occhi rotolarono lungo le guance cineree. Alla fine scosse la testa. —

Ehi. Deke. Scusa. Avrei dovuto dirtelo.

— Dirmi cosa? — Ma si sentì accapponare la pelle. . Aveva già capito.

Da come lei si stringeva la testa. Da come apriva e chiudeva le mani,

spasmodicamente. — Hai un blocco mentale anche tu.

— Sì. — Lei chiuse gli occhi. — Un blocco di castità. Sono stati quelle facce di

merda dei miei genitori. Non posso sopportare che qualcuno mi tocchi, o che mi

stia troppo vicino. — Spalancò gli occhi, pieni di odio cieco. — Non ho mai

neanche fatto niente. Proprio un cazzo. Loro lavorano tutti e due, e sono così

ansiosi che anch'io faccia carriera che non sono neanche capaci a pisciare dritto.

Hanno paura che trascuri i miei studi, se ci do dentro, be', hai capito, col sesso e

roba del genere. Ma il giorno che tolgono il blocco giuro che mi faccio chiavare

dal porco più schifoso, lercio e peloso. . Si stringeva di nuovo la testa. Deke corse

all'armadietto dei medicinali. Trovò un barattolo di vitamina B, se ne mise in

tasca qualcuna in caso di bisogno, e ne portò due a Nance, con un bicchiere

d'acqua. — Prendi. — Si tenne a una certa distanza. — Questo servirà a calmarti.

— Grazie — disse lei. Poi, quasi a se stessa: — Penserai che sono matta.

La sala giochi della stazione dei pullman era quasi vuota. Un ragazzino di

quattordici anni con la faccia allungata era chino su una consolle, intento a

manovrare flotte di sottomarini nel reticolo caliginoso del Nord Atlantico.

Deke entrò con passo indolente, con addosso la sua tenuta da ragazzo del giro,

e si appoggiò a un muro di blocchi di scorie pressate reso liscio da innumerevoli

mani di smalto verde. Si era lavato via la tintura dai capelli a spazzola, da

proletario, aveva rubato jeans e maglietta da Goodwill e aveva trovato un paio di

stivaletti negli armadietti della sauna di un ostello, quelli con le serrature da

quattro soldi.

— Hai visto Tiny in giro, amico?

I sottomarini schizzavano come pesciolini fluorescenti. — Dipende da chi lo

vuol sapere.

Deke si toccò il telecomando dietro l'orecchio sinistro. Lo Spad roteò su se

stesso sopra la consolle, veloce e delicato come una farfalla. Era bellissimo; così

perfetto, così “vero” da far sembrare la sala un'illusione. Sfrecciò sul reticolo a

pochi millimetri dal vetro, traendo vantaggio dall'effetto suolo programmato. Il

ragazzino non si preoccupò neppure di alzare gli occhi. — Da Jackman's — disse.

— Richmond Road, vicino ai residuati. Deke lasciò svanire lo Spad a metà di

un'impennata. Jackman's occupava la maggior parte del terzo piano di un

vecchio edificio in mattoni. Deke trovò per prima cosa il Best Buy War Surplus,

poi un'insegna al neon rotta sopra un ingresso buio. Il marciapiede di fronte era

pieno di residuati d'altro tipo: veterani mutilati, alcuni dei tempi dell'Indocina.

Vecchi che avevano lasciato gli occhi sotto il sole asiatico erano accovacciati

vicino a ragazzi che avevano inalato micotossine in Cile. Deke fu contento di

sentire le porte del vecchio ascensore chiuderglisi dolcemente alle spalle.

L'orologio polveroso sul lato opposto della lunga sala spettrale gli disse che

mancava un quarto alle otto. Il Jackman's era stato imbalsamato venti anni

prima che lui nascesse, sigillato con una pellicola giallastra di nicotina, lucido e

brillantina. Direttamente sotto l'orologio, gli occhi vuoti di un cervo, preda del

nonno di chissà chi, guardavano Deke da una fotografia incorniciata e ingrandita

che aveva assunto la tinta seppia delle ali di uno scarafaggio. Si sentivano i colpi

secchi e i fruscii di un tavolo da biliardo, lo scricchiolio di uno stivale da lavoro

sul linoleum mentre un giocatore si chinava per tirare. Sopra le lampade con i

paralumi verdi era appesa una sfilza di campane di Natale in carta crespa

scolorita, di un rosa morto. Deke guardò le pareti ingombre. Nessun facilitatore.

— Ce lo portano, se serve — disse qualcuno. Deke si voltò incontrando gli

occhi miti di un uomo calvo con occhiali cerchiati. — Mi chiamo Cline. Bobby

Earl. Non avete l'aria di uno che gioca a biliardo, signore. — Non c'era nulla di

minaccioso nella voce o nel fare di Bobby Earl. Si tolse gli occhiali dal naso e pulì

le spesse lenti con un pezzo di tela. A Deke ricordava un istruttore che aveva

cercato pazientemente di insegnargli l'installazione inversa dei biochip. — Io

sono un giocatore — disse, sorridendo. Aveva i denti di plastica bianca. — So di

non averne l'aria.

— Sto cercando Tiny — disse Deke.

— Be' — disse lui rimettendosi gli occhiali — non lo troverai. È andato al

Bethesda a farsi ripulire l'impianto idraulico. E comunque non si batterebbe

contro di te.

— Perché no?

— Perché non sei del giro, altrimenti riconoscerei la tua faccia. Sei bravo? —

Quando Deke annuì, Bobby Earl chiamo: — Ehi Clarence! Porta quel facilitatore.

Abbiamo un aviatore.

Venti minuti più tardi, perso il telecomando e i pochi soldi che gli restavano,

Deke passava accanto ai soldati mutilati del Best Buy.

— Lascia che ti dica una cosa, ragazzo — gli aveva detto Bobby Earl con tono

paterno, la mano sulla spalla, mentre accompagnava Deke all'ascensore. — Non

riuscirai mai a vincere contro un ex-combattente. . mi ascolti? Io non sono

neanche tanto bravo, solo un vecchio soldato di fanteria, sono stato in iper

quindici, forse venti volte. Il vecchio Tiny era un pilota, un pilota coi coglioni. Ha

passato tutta la guerra in iper fino al collo. Ha le membrane ridotte male. . non

riuscirai mai a batterlo.

Era una sera fredda. Ma Deke bruciava di rabbia e umiliazione.

—Cristo, quanto è rozzo — disse Nance, mentre lo Spad mitragliava colline di

biancheria intima rosa. Deke, raggomitolato sul divano, si strappò da dietro

l'orecchio il piccolo e costoso telecomando Braun.

— Adesso non mettertici anche tu, stronzetta nata-con-la-camicia. .

— Ehi, calmati! Non è mica colpa tua. È solo questione di tecnologia.

Quella piastrina che hai tu è veramente primitiva. Voglio dire, per il mercato

magari va bene. Ma paragonata alle cose che facciamo a scuola è. . Dovrei

riscrivertela io.

— Come sarebbe?

— Lascia che te la sistemi io. Queste puttanate sono scritte tutte in

esadecimale, capisci, perché i programmatori dell'industria vengono tutti dai

computer. È così che pensano. Ma fammelo portare al lettore-analizzatore del

dipartimento, inserire qualche modifica, tradurlo in un linguaggio moderno,

eliminare tutte le parti ridondanti. . Ti migliorerà i tempi di reazione, dimezzerà

il circuito di feedback. Così volerai più veloce e meglio. Diventerai un vero

professionista! — Tirò una boccata di marijuana dalla pipa ad acqua, poi si piegò

in due, ridendo e tossendo.

— È legale? — chiese Deke dubbioso.

— Ehi, perché credi che la gente compri telecomandi con i fili in oro? Per il

prestigio? Cagate. La conduttività migliora, elimina qualche nanosecondo dal

tempo di reazione. E nel gioco il tempo di reazione è tutto, ragazzo.

— No — disse Deke. — Se fosse così facile, la gente ce l'avrebbe già.

Tiny Montgomery ce l'avrebbe. Avrebbe il meglio.

— Ma mi ascolti o no? — Nance appoggiò la pipa, e un po' di acqua marrone si

rovesciò per terra. — La roba con cui lavoro io è tre anni avanti a qualsiasi cosa

si trovi in giro.

— Sul serio? — disse Deke dopo una pausa. — Puoi farlo?

Era come passare da un Modello T a una Lotus del ‘93. Lo Spad era un sogno,

rispondeva al minimo pensiero di Deke. Per settimane si fece le sale giochi senza

essere mai battuto. Volava contro i ragazzini del posto e abbatteva i loro aerei,

uno o tre per volta. Correva rischi, giocava veloce. E gli aerei cadevano. .

Finché un giorno Deke stava mettendo via i soldi delle vincite, e un negro

dinoccolato si staccò dal muro. Guardò le banconote di Deke con il loro involucro

di plastica e sorrise. Un dente con incastonato un rubino lampeggiò. — Sai —

disse — io l'avevo “sentito” che c'era un tizio che sapeva volare contro i

ragazzini.

— Diocristo — fece Deke spalmando burro danese su un grissino alle alghe. —

Li ho sotterrati, quei negri. Ed erano anche bravi.

— Mi fa piacere, tesoro — mormorò Nance. Stava lavorando sul suo progetto

per gli esami di fine d'anno, immettendo dati in una macchina.

— Sai, credo di avere del talento per questa roba. Capisci? Cioè, il programma

mi dà il vantaggio, ma io so sfruttarlo sul serio. Mi sto facendo una reputazione,

sai? — D'impulso accese la radio. Ottoni stridenti, dixieland.

— Ehi — disse Nance. — Ti dispiace abbassare?

— Scusa, stavo solo. . — Cercò un'altra stazione, trovò della roba lenta,

romantica. — Ecco. Alzati. Balliamo.

— Ehi, lo sai che non posso. .

— Invece puoi, bellezza. — Le buttò il grosso orsacchiotto di peluche, e

raccolse dal pavimento un abito di cotone stampato di lei. Lo tenne per la vita e

per una manica infilandosi il colletto sotto il mento. Profumava di patchouli, e

più lievemente di sudore. — Io sto qui e tu stai lì, e balliamo. Capito?

Sbattendo le palpebre, Nance si alzò e strinse forte l'orsacchiotto. Ballarono

lentamente, guardandosi negli occhi. Dopo un po', lei cominciò a piangere. Senza

smettere di sorridere.

Deke stava sognando a occhi aperti, immaginando di essere Tiny Montgomery

collegato al suo jet. Immaginava la macchina che reagiva ad ogni minimo

impulso neurale, i riflessi tesi al massimo, lo stimolante che scorreva nelle vene.

Il pavimento della stanza di Nance divenne una giungla tropicale, il letto un

altopiano ai piedi delle Ande, e Deke faceva volare il suo Spad alla velocità

massima, come se fosse un caccia interattivo. Ipodermiche computerizzate gli

immettevano superstimolanti nel flusso sanguigno. Sensori inseriti direttamente

nel cranio. . mentre eseguiva una virata supersonica nel grande bacino verde-

azzurro del cielo sopra la foresta tropicale boliviana. Sicuramente Tiny sarebbe

stato capace di sentire il flusso del vento sulle superfici di controllo. Sotto di lui

la fanteria si faceva strada nella giungla, con le pompe di stimolanti legate sopra

il gomito per dare loro una spintarella in più, da danza della morte, nel

combattimento, una spruzzata di inferno liquido in una fiala di plastica blu. Ne

ricevevano forse per dieci minuti alla settimana. Ma per volare a pelo degli

alberi, i riflessi tesi al massimo, così basso che le truppe di terra non ti vedevano

finché non eri sopra di loro, con gli agenti al fosgene già scaricati, e sparivi prima

ancora che potessero prendere la mira. . ci voleva un flusso costante di

iperstimolanti per mantenersi in quelle condizioni. E l'interfaccia neurale con

l'aereo era una strada a doppio senso: i computer di bordo controllavano i dati

biochimici e decidevano quando immettere la roba, quando fornire alla

componente umana una dose killer di spirito combattivo.

Dosaggi di quel genere distruggono. Distruggono a poco a poco, senza tregua,

incidendo le superfici del cervello, erodendo le membrane cellulari. Se non si

veniva congedati in fretta ci si ritrovava con un'attenuazione delle cellule

neurali: riflessi troppo rapidi per essere controllati dal corpo, e l'istinto di fuga-

o-attacco completamente sballato. .

— Ce l'ho fatta, ragazzo!

— Eh? — Deke alzò gli occhi, sorpreso, mentre Nance entrava sbattendo la

porta, gettando libri e borsa sul mucchio più vicino.

— Il mio progetto. . sono stata esentata dagli esami. Il profe ha detto che non

aveva mai visto una roba del genere. Ehi, senti, abbassa le luci, ti spiace? I colori

mi fanno un effetto strano. — Lui l'accontentò. — Fammi vedere, allora. Fammi

vedere questa cosa meravigliosa.

— Sicuro. — Nance prese il telecomando, buttò giù a calci un po' di roba dal

letto e si mise in posa. Una scintilla si trasformò in una fiamma sopra il palmo

della sua mano. Si sparse come un rivoletto di mercurio lungo il braccio, il collo,

e divenne un serpente, con la testa triangolare e la lingua dardeggiante. Colori

ardenti, arancione e rosso. Le scivolò fra i seni. — L'ho chiamato serpente di

fuoco — disse lei orgogliosamente.

Deke si avvicinò per guardare meglio, e lei balzò indietro.

— Scusa. È come la fiamma, no? Cioè, si vedono quelle piccole figurine che

scopano, dentro.

— Una specie — disse lei. Il serpente di fuoco le scivolò lungo lo stomaco. — Il

mese prossimo giunterò 200 programmi di fiamma separati, con delle

giustificazioni intermedie per ottenere l'effetto visuale. Poi inserirò l'immagine

mentale del corpo per renderlo autorientante.

— Così potrà strisciare lungo tutto il corpo senza doverci pensare. Potrai

indossarlo mentre balli. Forse sono scemo. Ma se non l'hai ancora fatto, com'è

che posso vederlo?

Nance ridacchiò. — È qui il bello. . metà del lavoro non l'ho ancora fatto. Non

avevo tempo di assemblare i pezzi in un programma unificato. Accendi la radio:

voglio ballare. — Gettò via le scarpe. Deke si sintonizzò su qualcosa di vigoroso.

Poi, su richiesta di Nance, l'abbassò fin quasi a un sussurro.

— Mi sono procurata due dosi di iper, capisci. — Saltellava sul letto,

intrecciando le mani come una danzatrice balinese. — L'hai mai provata.

Incredibile. Dà una concentrazione assoluta. Guarda. — Si mise “en pointe”. —

Mai fatto prima.

— Iper — disse Deke. — L'ultima persona che ho conosciuto che hanno

trovato con quella roba, si è beccato tre anni in fanteria. Come te la sei

procurata?

— Ho fatto un affare con una veterana che avevo conosciuto alle medie.

— Si è ritirata il mese scorso. Quella roba mi dà la visualizzazione perfetta.

Posso controllare la proiezione a occhi chiusi. Ho assemblato mentalmente il

programma in un attimo.

— Con due dosi sole?

— Una dose. L'altra mi servirà più avanti. L'insegnante è rimasto così

impressionato che mi ha prenotato un colloquio per un lavoro. Un reclutatore

della I. G. Feuchtwaren verrà al campus fra due settimane. Quella capsula servirà

a vendergli il programma e me. Finirò la scuola con due anni di anticipo, filerò

dritta nell'industria senza andare in prigione e senza dover pagare 200 dollari.

Il serpente si arrotolò formando una tiara fiammeggiante. Deke provò una

strana sensazione al pensiero che Nance sarebbe uscita dalla sua vita.

— Sono una strega — cantò Nance — la strega del wetware. — Si sfilò la

camicia dalla testa e la buttò in alto. I seni alti e ben fatti si muovevano liberi,

mentre ballava. — Arriverò — stava cantando una canzone di successo — fino

in. . cima! — Aveva i capezzoli piccoli, rosei e ritti. Il serpente di fuoco li leccò,

poi schizzò via.

— Ehi, Nance — disse Deke a disagio. — Datti una calmata, huh?

— Sto festeggiando! — Si infilò un pollice nelle mutandine dorate, lucide. Il

fuoco le si avvolse attorno alla mano e fra le cosce. — Sono la dea vergine, bello

mio, e ho la forza! — Stava cantando di nuovo.

Deke distolse gli occhi. — Adesso devo andare — farfugliò. — Andare a casa a

farmi una sega. — Si chiese dove avesse nascosto la seconda dose. Poteva essere

ovunque.

C'era un protocollo nel giro, un tacito ordine di deferenza e precedenza,

elaborato quanto quello di una corte imperiale cinese. Non importava se Deke

era bravo, se la sua reputazione si stava spandendo a macchia d'olio. Anche un

aviatore di nome non poteva sfidare chi voleva. Doveva salire di grado. Ma se si

volava ogni sera, se si era sempre disponibili a rispondere alle sfide, e si era

bravi. . Be', era possibile salire in fretta.

Deke era in vantaggio di un aereo. Era un torneo, tre aerei contro tre. Non

c'erano molti spettatori, una dozzina al massimo, ma era un buon duello, e

facevano rumore. Deke era immerso nella calma maniacale del combattimento,

quando si rese conto d'improvviso che tutti erano diventati silenziosi. Vide i tipi

del giro agitarsi e scambiarsi occhiate. Gli occhi guardarono alle sue spalle. Sentì

le porte dell'ascensore aprirsi. Freddamente eliminò il secondo aereo nemico,

poi arrischiò una rapida occhiata sopra le spalle. Tiny Montgomery era appena

entrato da Jackman's. La sedia a rotelle scivolò con un sussurro sul linoleum

ingiallito, guidata da piccole contrazioni di una mano non del tutto paralizzata.

La sua espressione era seria calma, indifferente.

In quell'istante Deke perse due aerei. Uno per derisoluzione, cancellato dal

facilitatore, e l'altro perché il suo avversario era un vero lottatore: eseguì una

vite orizzontale, diminuendo la velocità e scivolando di fianco, e mitragliò il

biplano di Deke mentre gli passava davanti. L'aereo cadde in fiamme. I due

superstiti avevano la stessa altezza e velocità, e mentre cercavano la posizione

migliore si ritrovarono naturalmente a girare in tondo.

Gli altri fecero posto a Tiny mentre si avvicinava al tavolo. Bobby Earl Clive lo

seguiva, dinoccolato e noncurante. Deke e il suo avversario si scambiarono

un'occhiata e ritirarono i loro aerei dal tavolo di gioco, per lasciar parlare

l'uomo. Tiny sorrise. I lineamenti erano piccoli, assiepati al centro della faccia

pallida e molle. Un dito si contraeva leggermente sul bracciolo della sedia. — Ho

sentito parlare di te. — Guardò dritto Deke. La voce era morbida e

sorprendentemente dolce, quasi da bambina. — Ho sentito che sei bravo. Deke

annuì adagio. Il sorriso svanì dalla faccia di Tiny. Sporse le labbra morbide e

carnose, come se aspettasse un bacio. Gli occhi piccoli e luminosi studiarono

Deke senza malizia. — Vediamo cosa sai fare, allora.

Deke si immerse nel freddo gioco della guerra. E quando il nemico precipitò

fra fumo e fiamme, per esplodere e svanire sul tavolo, Tiny girò la sedia senza

una parola, si infilò nell'ascensore e sparì. Mentre Deke raccoglieva le sue

vincite, Bobby Earl gli si avvicinò e disse: — Vuole giocare con te.

— Eh? — Deke non era abbastanza in alto nel circuito da sfidare Tiny,

neanche lontanamente. — Qual è il trucco?

— Uno che doveva venire domani da Atlanta ha rinunciato. Il vecchio Tiny

aveva una gran voglia di mettersi contro qualcuno di nuovo. Perciò pare che tu

possa aspirare alla Max.

— Domani? Mercoledì? Non mi lascia molto tempo per prepararmi.

Bobby Earl fece un sorriso gentile. — Non credo che faccia molta differenza.

— Come sarebbe a dire, signor Cline?

— Ragazzo, tu non sai le “mosse”, capisci? Non hai sorprese. Voli come un

principiante, solo più veloce e agile. Mi segui?

— Non sono tanto sicuro. Vogliamo farci qualche scommessa?

— A essere sincero — disse Clive — ci speravo. — Tirò fuori dalla tasca un

piccolo notes nero e leccò la punta di un mozzicone di matita. — Ti do cinque a

uno. Nessuno ti darà delle quotazioni migliori.

Guardò Deke quasi con tristezza. — Tiny, vedi, è troppo superiore a te, e

questo è il succo della faccenda. Lui vive per quel maledetto gioco, non ha altro.

Non può alzarsi da quella maledetta sedia. Se credi di poter battere un uomo che

lotta per la propria vita, ti sbagli di grosso.

Il ritratto del colonnello dipinto da Norman Rockwell guardava Deke

spassionatamente, dal Kentucky Fried sull'altra parte di Richmond Road, di

fronte al bar. Deke stringeva la tazza con mani fredde e tremanti. Si sentiva

ronzare il cranio per la stanchezza. Cline aveva ragione, disse al colonnello.

Posso combattere con Tiny, ma non posso vincere. Il colonnello fissava con

sguardo calmo e non particolarmente amichevole, che comprendeva anche il

bar, il Best Buy e il suo squallido regno di Richmond Road. Aspettando che Deke

ammettesse a se stesso la cosa terribile che doveva fare.

— Tanto quella troia mi pianterà lo stesso — disse Deke ad alta voce.

La cameriera negra lo guardò con aria strana, poi distolse subito gli occhi.

— Ha telefonato papà! — Nance entrò ballando nell'appartamento,

sbattendosi la porta alle spalle. — Sai cosa ha detto? Ha detto che se riesco a

farmi assumere e restare per sei mesi, mi farà togliere il blocco. Ci pensi? Deke?

— Esitò. — Stai bene? Deke si alzò. Adesso che era arrivato il momento si

sentiva irreale, come se fosse in un film, o qualcosa del genere. — Perché non sei

tornato a casa ieri notte? — chiese Nance.

Lui si sentiva il volto teso in maniera innaturale, una maschera di pergamena.

— Dove hai nascosto l'iper, Nance? Mi serve.

— Deke — disse lei, facendo un sorriso incerto che svanì subito. — Deke, è

mia. La mia dose. Ne ho bisogno. Per il colloquio. Lui sorrise con disprezzo. —

Hai i soldi. Puoi sempre procurartene un'altra capsula.

— Non per venerdì! Ascolta, Deke, è veramente importante. Tutta la mia vita

dipende da quel colloquio. Mi serve quella capsula. È tutto quello che ho!

— Un cazzo, bella, tu hai tutto il mondo! Merda, guardati in giro: un etto e

mezzo di hashish libanese! Acciughe in scatola. Assistenza medica illimitata, se

dovessi averne bisogno. — Lei stava indietreggiando, inciampando contro le

onde statiche di lenzuola sporche e riviste spiegazzate che si frangevano ai piedi

del letto. — Io non ho mai avuto niente di lontanamente simile a questo. Non ho

mai avuto quel vantaggio che ti fa andare avanti. Be', questa volta ce l'ho. C'è un

combattimento fra due ore che io ho intenzione di vincere. Mi senti? — Si stava

infuriando, e questo era un bene. Ne aveva bisogno per quello che doveva fare.

Nance alzò le braccia, il palmo aperto, ma questa volta lui era pronto e le colpì

la mano, senza vedere neppure il tunnel nero, o i piccoli occhi rossi. Poi caddero

tutti e due, e lui le si trovò sopra, il respiro di Nance caldo e veloce sulla sua

faccia. — Deke! Deke! Io ho bisogno di quella roba, Deke, il mio colloquio, è la

sola. . devo. . devo. . — Girò la testa, piangendo, verso il muro. — Ti prego, Dio, ti

prego, non. .

— Dove l'hai nascosta?

Bloccata sul letto dal suo corpo, Nance cominciò a contorcersi, in spasimi di

dolore e di paura.

— Dov'è?

La sua faccia era esangue, grigia carne di cadavere, occhi pieni di orrore. Le

labbra le tremavano. Era troppo tardi per tornare indietro;

Deke aveva passato il limite. Si sentiva disgustato e nauseato, e ancora più per

il fatto che in qualche modo inaspettato e sgradito, gli “piaceva”.

— Dov'è, Nance? — E lentamente, molto delicatamente, cominciò ad

accarezzarle la faccia.

Deke chiamò l'ascensore del Jackman's con il dito che si muoveva rapido e

veloce come un calabrone e si posava leggero come una farfalla sul pulsante di

chiamata. Si sentiva pieno di energia, e la controllava perfettamente. Mentre

saliva si tolse gli occhiali da sole e sogghignò rivolto alla sua immagine riflessa

sulla cromatura sporca di ditate. Aveva le pupille spillate, quasi invisibili, ma il

mondo era luminoso come una grande luce al neon.

Tiny lo aspettava. Gli angoli della bocca gli si piegarono in un sorriso dolce,

mentre notava le sue pupille, la calma esagerata dei movimenti, il tentativo

fallito di fingersi goffo. — Bene — disse con voce da bambina. — Pare che debba

aspettarmi delle sorprese. La Max era attaccata a uno dei tubi della sedia a

rotelle. Deke si mise al suo posto e si inchinò, non proprio in maniera scherzosa.

— Cominciamo. — Come sfidante, volava in difesa. Materializzò i suoi aerei ad

un'altezza intermedia, abbastanza in alto da poter scendere in picchiata,

abbastanza in basso da avere un preavviso quando Tiny avesse attaccato. Attese.

Furono gli spettatori a metterlo sull'avviso. Un tipo grasso, con la brillantina,

assunse un'aria sorpresa; un babbeo dagli occhi vuoti cominciò a sorridere. Si

sentì un mormorio. Gli occhi si mossero lentamente su quelle teste rese immobili

dal tempo di reazione sovrastimolato. Gli ci vollero tre nanosecondi per

individuare la direzione dell'attacco. Deke sollevò la testa di scatto, e. . Figlio di

puttana, era “cieco”! I Fokker scendevano dritti dalla lampadina da 200 watt, e

Tiny l'aveva indotto a guardarla. Vedeva tutto bianco. Deke strizzò le palpebre

facendo sgorgare le lacrime e cercò freneticamente di mantenere la visuale.

Allargò la formazione, facendo virare due biplani a sinistra e uno a destra.

Immediatamente fece compiere a ciascuno un mezzo giro, poi li riportò sulla

rotta di prima. Doveva schivare a caso, non sapendo dove fossero gli aerei

nemici.

Tiny ridacchiò. Deke lo sentiva attraverso i rumori della folla, gli incitamenti,

le imprecazioni, il tintinnio delle monete, che sembravano seguire un loro ritmo

indipendente dagli alti e bassi del duello.

Quando tornò a vedere, un istante più tardi, uno Spad era in fiamme e

precipitava. I Fokker seguivano i suoi due aerei superstiti, uno sul primo e due

sull'altro. Dopo tre secondi di gioco era in svantaggio di un aereo.

Muovendosi velocemente per evitare che Tiny potesse centrarlo con i

traccianti, fece fare un looping all'aereo con un solo inseguitore e portò l'altro

verso il punto cieco, fra Tiny e la lampadina. L'espressione di Tiny si fece molto

calma. Una lieve ombra di delusione, perfino di disprezzo, venne annullata dalla

tranquillità. Guidava gli aerei senza fretta, aspettando che Deke facesse la sua

mossa.

Allora, appena un attimo prima del punto cieco, Deke gettò il suo Spad in

picchiata, mentre i Fokker gli passavano sopra e si inclinavano in virata da una

parte e dall'altra, curvando di nuovo per riprendere posizione.

Lo Spad puntò verso il terzo Fokker, messo in posizione dall'altro aereo di

Deke. I proiettili mitragliarono le ali e la fusoliera cremisi. Per un istante non

accadde nulla, e Deke pensò di aver mancato il bersaglio. Poi il piccolo aereo

scivolò a sinistra e precipitò, lasciandosi dietro una scia di fumo oleoso. Tiny

aggrottò le sopracciglia, e piccole rughe di dispiacere gli sciuparono la bocca

perfetta. Deke sorrise. Uno pari, e Tiny teneva le sue posizioni.

Entrambi gli Spad erano tallonati da vicino. Deke li fece allargare, poi li portò

insieme da lati opposti del tavolo. Li puntò dritti uno contro l'altro,

neutralizzando il vantaggio di Tiny: nessuno dei due poteva sparare senza

mettere in pericolo i propri aerei. Deke portò i suoi alla massima velocità, muso

contro muso. Un istante prima che si scontrassero li fece passare uno sopra

l'altro, aprendo il fuoco contro i Fokker e virando. Tiny era pronto. I proiettili

riempirono l'aria. Poi uno dei blu e uno dei rossi si alzarono liberi, in direzioni

opposte. Dietro di loro due biplani si aggrovigliarono in aria. Le ali si toccarono,

si torsero, e gli aerei si accartocciarono. Caddero insieme, quasi a picco, sul

grande feltro sottostante.

Dieci secondi di gioco, e quattro aerei in meno. Un veterano negro sporse le

labbra e soffiò adagio. Qualcun altro scosse la testa incredulo.

Tiny sedeva eretto, un po' inclinato in avanti sulla sua sedia a rotelle, gli occhi

fissi, immobili, le mani morbide che stringevano debolmente i braccioli. Aveva

perso la sua aria distaccata e divertita; tutta la sua attenzione era concentrata

sul gioco. I ragazzi del giro, il tavolo, Jackman's stesso non esistevano più per lui.

Bobby Earl Cline gli appoggiò una mano sulla spalla; Tiny non se ne accorse. Gli

aerei si trovavano ai lati opposti della sala, guadagnando lentamente quota. Deke

portò il suo vicino al soffitto, appena visibile fra il fumo. Gettò a Tiny una rapida

occhiata, e i loro occhi si incontrarono. Freddi. — Vediamo cosa sai fare —

mormorò Deke a denti stretti.

Gli aerei si avvicinarono.

Gli effetti dell'iper erano al massimo, adesso, e Deke vedeva i proiettili

traccianti di Tiny strisciare nell'aria come lumache. Dovette mettere il suo Spad

sulla linea di fuoco per poter sparare efficacemente, poi inclinarsi e virare in

maniera che i proiettili del Fokker gli passassero sotto il carrello. Tiny fu

altrettanto pronto, schivando il fuoco di Deke e passando così vicino allo Spad

che i carrelli quasi si agganciarono.

Deke stava facendo compiere un looping strettissimo al suo Spad, quando

cominciarono le allucinazioni. Il feltro si contorse e si sollevò. . si trasformò

nell'inferno verde della foresta boliviana su cui Tiny aveva combattuto. I muri si

allontanarono in una grigia infinità, e Deke avvertì attorno a sé la gabbia di un jet

cibernetico a decollo verticale.

Ma Deke era preparato. Si aspettava le allucinazioni e sapeva di poterle tenere

a bada. I militari non avrebbero mai usato una droga impossibile da combattere.

Spad e Fokker eseguirono un looping prima di affrontarsi nuovamente. Vedeva

la tensione sulla faccia di Tiny Montgomery, gli echi delle battaglie nel cielo

profondo della giungla. Portarono gli aerei uno di fronte all'altro, avvertendo le

forze di torsione che venivano trasmesse direttamente dagli strumenti al

cervelletto, l'adrenalina pompata da sotto le ascelle, la fredda libertà del flusso

d'aria sulla fusoliera del jet che si mescolava con gli odori del metallo

surriscaldato e del sudore prodotto dalla paura. I proiettili traccianti gli

schizzarono davanti alla faccia, e si tirò indietro di scatto, vedendo lo Spad

saettare vicino al Fokker, entrambi indenni. Il pubblico agitava i cappelli e

batteva i piedi, sembravano tutti pagliacci impazziti. Deke scambiò di nuovo

un'occhiata con Tiny.

Con cattiveria e anche se ogni nervo era teso come i filamenti di cristallo-

carbonio che impedivano ai caccia di andare a pezzi nelle acrobazie sovrumane

sopra le Ande, finse un sorriso noncurante e strizzò un occhio, inclinando

leggermente la testa come per dire:

“Guarda lì.”

Tiny gettò un'occhiata di lato.

Fu solo una frazione di secondo, ma fu sufficiente. Deke eseguì un Immelmann

veloce e strettissimo, ai limiti della tolleranza teorica, quale non si era mai visto

sul circuito, e si attaccò alla coda di Tiny.

“Vediamo come te la cavi adesso, faccia di merda”.

Tiny si buttò in picchiata verso il tappeto verde, e Deke lo seguì.

Non sparò. Aveva portato Tiny dove voleva. In fuga. Proprio come in ogni

missione di combattimento. Esaltato per l'iper, forse, ma spaventato, in fuga.

Erano a pelo del feltro, adesso, a livello delle cime degli alberi. “Crepa” pensò

Deke, e aumentò la velocità. Vedeva Bobby Earl Cline con la coda dell'occhio, e

c'era una strana espressione sulla sua faccia. Come una preghiera. La posa

tranquilla di Tiny era svanita. Aveva il volto contorto, tormentato.

Tiny si lasciò prendere dal panico, e gettò il suo aereo fra la folla. I biplani

eseguivano acrobazie fra i ragazzi del giro. Qualcuno saltava indietro

involontariamente, altri agitavano le mani ridendo. Ma c'era una luce di terrore

negli occhi di Tiny, che parlava di eternità, di paura e prigionia, due lame che si

tagliavano l'un l'altra senza fine. .

La paura era la morte nell'aria, la prigionia l'essere rinchiuso nel metallo,

prima dell'aereo poi della sedia. Deke gli leggeva tutto in faccia: il

combattimento era l'unica via d'uscita che Tiny avesse avuto, e aveva colto ogni

occasione. Fino a quando qualche anonimo “nationalista” con un vecchio SAM

l'aveva strappato dal cielo verdeazzurro della Bolivia e l'aveva scaraventato su

Richmond Road e nel Jackman's, contro quel killer sorridente contro cui stava

combattendo per l'ultima volta sul feltro sbiadito. Deke si sollevò sulle punte dei

piedi, la faccia che bruciava di quel sorriso da un milione di dollari che è il segno

distintivo della droga che aveva già consumato Tiny prima che qualcuno si desse

la pena di farlo precipitare in un intrico di metallo e carne straziata. In quel

momento fu tutto chiaro. Deke vide che volare era l'unica cosa che tenesse

insieme Tiny. Sfiorare ogni giorno le dita della morte per poi levarsi dalla bara di

metallo, nuovamente vivo. Aveva tenuto a bada il collasso con la sola forza della

volontà. Spezzata quella forza, la morte sarebbe scesa su di lui, affogandolo. Tiny

si sarebbe chinato, vomitandosi addosso.

E Deke colpì. .

Vi fu un momento di silenzio incredulo, mentre l'ultimo aereo di Tiny svaniva

in un lampo di luce. — Ce l'ho fatta — sussurrò Deke. Poi, a voce più alta: —

Figlio di puttana, ce l'ho fatta! Dall'altra parte del tavolo Tiny si contorse sulla

sedia, le braccia che si agitavano spasmodicamente; la testa gli si afflosciò su una

spalla. Dietro di lui, Bobby Earl Cline fissava dritto Deke, gli occhi come carboni

ardenti.

Il giocatore prese la Max e avvolse il nastro attorno a un pacco di banconote.

Senza preavviso, gettò il tutto in faccia a Deke. Senza sforzo, con indifferenza,

Deke l'afferrò al volo. Per un momento, parve che il giocatore volesse saltargli

addosso, scavalcando il tavolo da biliardo. Venne fermato da uno strattone alla

manica. — Bobby Earl — sussurrò Tiny, la voce soffocata per l'umiliazione —

portami. . fuori. .

Rigidamente, con rabbia, Cline fece girare la sedia a rotelle e la spinse via,

nell'ombra.

Deke gettò indietro la testa e rise. Perdio, come si sentiva bene! Si mise la Max

nel taschino della camicia. La sentì dura e pesante. Il denaro lo infilò nei jeans.

Dio, aveva voglia di saltare, si sentiva dentro il trionfo, era come un animale

selvaggio, bello e forte come un cervo che aveva visto una volta da un

Greyhound, e in quel momento gli sembrò che ne fosse valsa la pena, tutto il

dolore e le sofferenze che aveva dovuto sopportare per vincere.

Ma il Jackman's era silenzioso. Nessuno applaudiva. Nessuno veniva da lui per

congratularsi. Si calmò, e vide facce silenziose, ostili. Nessuno dei tipi del giro era

dalla sua parte. Trasudavano disprezzo. Per un interminabile momento l'aria fu

carica di violenza pronta a esplodere. . poi qualcuno si voltò, scatarrò e sputò sul

pavimento. Il gruppo si disperse, mormorando, scivolando ad uno ad uno nel

buio. Deke non si mosse. Un muscolo della gamba cominciò a contrarsi, segnale

del collasso da iper. Sentiva il cranio intorpidito, e aveva un sapore orribile in

bocca. Per un secondo dovette aggrapparsi con entrambe le mani al bordo del

tavolo, per non cadere all'infinito nell'ombra vivente sotto di lui, mentre

rimaneva sospeso, impalato dagli occhi morti del cervo nella foto sotto

l'orologio. Un po' di adrenalina l'avrebbe rimesso in sesto. Doveva festeggiare.

Ubriacarsi, drogarsi, parlare della sua vittoria, raccontarla più volte,

contraddirsi, inventarsi particolari, ridere e vantarsi. Una sera di gloria come

quella esigeva delle spacconate. Ma mentre era lì in piedi, con tutto il Jackman's

enorme e silenzioso e deserto attorno a lui, si rese conto d'improvviso che non

gli rimaneva nessuno a cui raccontarlo.

Proprio nessuno.

F I N E

Document Outline