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La razza giusta
(The Belonging Kind, 1981)
Forse era stato al Club Justine, o al Jimbo's, o al Sad Jack's, o al Rafters; Coretti
non riusciva a ricordare dove l'avesse vista per la prima volta. Avrebbe potuto
essere successo in qualsiasi momento in uno qualsiasi di quei bar. Lei nuotava
nella pseudo-vita fatta di bottiglie e bicchieri e del lento salire del fumo delle
sigarette. . si muoveva nel suo elemento naturale, un bar dopo l'altro. Coretti
ricordava la prima volta che le aveva parlato come se la vedesse dalla parte
sbagliata di un potente cannocchiale: piccola, distinta e molto lontana.
L'aveva notata per la prima volta nel Backdoor Lounge. Si chiamava Backdoor
perché si entrava dalla porta posteriore, in uno stretto vicolo. I muri del vicolo
erano coperti di graffiti; i lampioni, dietro le loro reti, brulicavano di falene.
Scaglie cadute dai mattoni pitturati di bianco scricchiolavano sotto i piedi. Poi si
apriva la porta e ci si trovava in uno spazio in penombra abitato da fantasmi
ambigui di cinque o sei altri bar che avevano aperto e poi chiuso bottega nello
stesso locale, sotto diverse gestioni. Coretti qualche volta ci andava perché gli
piaceva il sorriso stanco del barista negro, e perché i pochi clienti cercavano
raramente di fare amicizia. Non era molto bravo a fare conversazione con gli
estranei, né ai bar né alle feste.
Era bravo nella comunità universitaria, dove teneva lezioni di linguistica
preliminare; era capace di parlare con il direttore del suo dipartimento di
sequenze e opposizioni nelle aperture di conversazione. Ma non riusciva mai a
parlare agli estranei nei bar e alle feste. Non andava a molte feste. Andava in un
sacco di bar. Coretti non sapeva vestire. I vestiti sono un linguaggio, e Coretti era
una specie di balbuziente dell'abbigliamento, incapace di indossare quella giusta
combinazione di abiti che mette l'estraneo a suo agio. La sua ex moglie gli diceva
che si vestiva come un marziano, che sembrava non far parte della città. Non gli
era piaciuto sentirselo dire, perché era vero.
Coretti non aveva mai avuto una ragazza come quella che sedeva con la
schiena leggermente inarcata nella luce liquida che ricadeva sul bancone del
Backdoor. La stessa luce era incisa nelle lenti del barista, avvitata attorno ai colli
delle bottiglie, schizzata sullo specchio. In quella luce il vestito di lei aveva il
colore del grano giovane, come un guscio mezzo aperto, e mostrava schiena,
natiche e un bel paio di cosce attraverso gli spacchi sui fianchi. Quella sera aveva
i capelli ramati. E gli occhi verdi.
Coretti si fece strada risolutamente fra i tavoli vuoti di metallo cromato e
formica, raggiunse il bar e ordinò un bourbon liscio. Si tolse la giacca di lana e
finì per appoggiarsela sulle ginocchia quando si sedette, a uno sgabello di
distanza da lei. Perfetto, si disse: così penserà che stai nascondendo un'erezione.
E si accorse con sorpresa, che ne aveva proprio una da nascondere. Esaminò la
propria immagine nello specchio dietro il bancone: un uomo sulla trentina con
capelli scuri che andavano diradandosi e una faccia pallida e stretta su un collo
lungo, troppo lungo per il colletto aperto della camicia di nylon stampata con
figure di automobili del 1910 a tre colori vivaci. Indossava una cravatta a grosse
strisce diagonali, nere e marroni. Si accorse che era troppo stretta per le punte
grottescamente lunghe del colletto. O forse era sbagliato il colore. Comunque
qualcosa era fuori posto.
Accanto a lui, nella scura limpidezza dello specchio, la ragazza dagli occhi
verdi sembrava Irma la Dolce. Ma guardandola meglio, studiandole la faccia,
Coretti ebbe un brivido. La faccia di un animale. Una faccia bella, ma semplice,
astuta, bidimensionale. “Quando si accorgerà che la guardi” pensò “ti farà un
sorriso, divertito e sprezzante. . O qualsiasi altra cosa ti aspetti.” Coretti
farfugliò: — Posso, ehm, offrirti da bere? In momenti come quello Coretti cadeva
in preda a un tic linguistico penosissimo, da maestro di scuola. “Ehm”. Ebbe un
brivido. “Ehm”.
— Vuoi, ehm, offrimi da bere? Molto gentile da parte tua — disse lei,
lasciandolo di sasso. — Sì, mi piacerebbe molto. — Vagamente, Coretti notò che
la risposta della ragazza era artefatta e insicura quanto la sua domanda. Lei
aggiunse: — In un'occasione come questa, un Tom Collins sarebbe delizioso.
In un'occasione come questa? Delizioso? Innervosito, Coretti ordinò due drink
e pagò.
Una donna grossa, in jeans e camicia da cowboy ricamata, si appoggiò al
bancone accanto a lui e chiese al barista di cambiarle una banconota. Poi
raggiunse a grandi passi il juke-box e fece partire “You're the Reason Our Kids
Are Ugly”, di Conway e Loretta. Coretti si rivolse alla donna in verde e mormorò
con voce insicura: — Ti piace ascoltare la musica country? — “Ti piace
ascoltare. .” Emise un grugnito silenzioso per quel giro di parole, e cercò di
sorridere.
— Sì, certo — rispose lei, con una lieve inflessione nasale nella voce. — Certo
che mi piace.
La ragazza-cowboy sedette vicino a Coretti e le chiese, strizzandole l'occhio:
— Questo piccoletto ti sta dando fastidio? E la ragazza in verde con gli occhi da
animale rispose: — Oh, diavolo, no ciccia, lo tengo d'occhio. — E rise. La risata
giusta. Il Coretti dialettologo si agitò a disagio: il cambiamento di sintassi e
inflessione era troppo perfetto. Un'attrice? Un'imitatrice di talento? Gli venne in
mente “mimetico”, ma lo mise da parte per studiare l'immagine di lei riflessa
nello specchio. Le file di bottiglie le nascondevano i seni come un abito di vetro.
— Io sono Coretti — disse lui, mutando bruscamente la sua poltergeist
verbale in un atteggiamento fasullo da duro. — Michael Coretti.
— Molto piacere — disse lei a bassa voce, per non farsi sentire dall'altra
donna, e ancora una volta era scivolata in una parodia di Emily Post.
— Conway e Loretta — disse la ragazza-cowboy, a nessuno in particolare.
— Antoinette — disse la donna in verde, e inclinò la testa. Finì di bere, fece
finta di guardare l'orologio, snocciolò un “grazie di avermi offerto da bere” fin
troppo da brava bambina e se ne andò. Dieci minuti più tardi, Coretti la seguiva
lungo la Terza Avenue. Non aveva mai seguito nessuno in vita sua, e la cosa lo
spaventava e lo emozionava allo stesso tempo. Quaranta passi gli sembrava la
distanza giusta, ma cosa avrebbe fatto se lei si fosse guardata alle spalle? La
Terza Avenue non è una strada buia, e fu lì, alla luce dei lampioni, come su un
palcoscenico, che lei cominciò a cambiare. La strada era deserta.
Stava attraversando la strada. Scese dal marciapiede e cominciò. Cominciò con
la tinta dei capelli. . All'inizio Coretti pensò che fosse il riflesso dei lampioni. Ma
non c'erano luci al neon per produrre quelle macchie di colore che scivolavano e
si confondevano come chiazze di olio. Poi i colori svanirono e nel giro di tre
secondi lei era diventata biondo platino.
Coretti era sicuro che fosse un'illusione ottica, fino a quando il suo vestito
cominciò a fremere, ritirandosi sul corpo come una pellicola di plastica per
alimenti. Una parte si staccò completamente e cadde sull'asfalto in frammenti
accartocciati, come la pelle di un animale. Quando vi passò accanto vide solo una
schiuma verde che si dissolveva spumeggiando.
Guardò verso la ragazza, e il suo vestito era diverso, raso verde dai riflessi
cangianti. Anche le sue scarpe erano cambiate. Le spalle erano nude, a parte le
spalline sottili che le passavano fra le scapole. I capelli le erano diventati corti,
diritti. Si accorse di essersi appoggiato alla vetrina di un gioielliere, il respiro che
gli usciva a rantoli nell'umidità della sera autunnale. Sentì il battito ritmico della
discoteca da due isolati di distanza. Mentre la ragazza si avvicinava, i suoi
movimenti cominciarono impercettibilmente ad assumere un nuovo ritmo, una
diversa enfasi nell'ondeggiare delle anche, nella maniera in cui appoggiava i
tacchi sul marciapiede. Il portiere la fece passare con un vago cenno del capo.
Bloccò Coretti, controllandogli la patente e aggrottando la fronte nel vedere la
sua giacca di lana. Coretti osservò ansiosamente l'onda di luce in cima alla scala
di plastica lattea, oltre il portiere. Era svanita lì, nel lampeggiare robotico e nel
frastuono echeggiante. Controvoglia l'uomo lo lasciò passare, e Coretti salì
veloce le scale, facendo traballare le luci dietro i gradini di plastica trasparente.
Coretti non era mai stato in una discoteca prima di allora; si trovò in un
ambiente progettato per la completa soddisfazione-nella-distrazione. Si fece
strada nervosamente attraverso il movimento e gli abiti appariscenti e i canti
urbani meccanici che tuonavano dai grandi altoparlanti. La cercò quasi alla cieca
sulla pista da ballo affollata di gente in posa coagulata dalle luci stroboscopiche.
Lei si muoveva in perfetto accordo con la musica, assumendo tutta una serie di
pose successive; recitò l'intera sequenza prescritta con grazia, ma senza arte,
adattandosi alla perfezione. Sempre, sempre adattandosi alla perfezione. Gli altri
danzavano meccanicamente, eseguendo faticosamente il rituale.
Quando il ballo finì la ragazza si voltò bruscamente e si tuffò nel folto della
folla. La massa mutevole si chiuse attorno a lei come metallo fuso.
Coretti si buttò dietro di lei senza lasciarla mai con gli occhi. . E fu l'unico ad
accorgersi del cambiamento. Quando lei raggiunse le scale aveva i capelli color
castano dorato, lunghi e dritti, e indossava un lungo abito blu. Fra i capelli le
spuntava un fiore bianco, dietro l'orecchio destro. I seni le erano diventati un
poco più grandi, i fianchi leggermente più pesanti. Scese le scale due gradini alla
volta, e in quel momento lui ebbe paura per lei. Tutti quei liquori.
Ma l'alcool sembrava non avere alcun effetto su di lei. Senza mai staccarle gli
occhi di dosso Coretti la seguì, i battiti del cuore più veloci della musica pulsante
alle sue spalle, sicuro che da un momento all'altro si sarebbe girata, l'avrebbe
visto, avrebbe chiamato aiuto.
Due isolati dopo, lungo la Terza, si infilò da Lothario's. Ora camminava
diversamente. Lothario's era un insieme di sale silenziose, con felci e specchi Art
Déco. C'erano falsi lampadari Tiffany appesi al soffitto, alternati a ventilatori
dalle pale di legno che ruotavano troppo lentamente per disperdere il fumo che
si alzava fra il mormorio consapevolmente dolce della conversazione. Dopo la
discoteca, Lothario's faceva un effetto familiare e piacevole. Un pianista jazz, in
camicia a righine e cravatta allentata faceva a gara sommessamente con la
conversazione e le risate che venivano dai tavoli. Lei andò al bar; gli sgabelli
erano occupati solo per metà, ma Coretti scelse un tavolo d'angolo, all'ombra di
una palma in miniatura, e ordinò un bourbon.
Bevve il bourbon e ne ordinò un altro. Non riusciva a sentire molto gli effetti
dell'alcool, quella sera.
Lei era seduta vicino a un giovane, uno dei soliti giovani con tratti regolari e
anonimi, che indossava una camicia da golf gialla e jeans stirati. Le loro anche si
sfioravano appena. Non sembravano parlare, ma Coretti aveva la sensazione che
in qualche maniera comunicassero. Erano leggermente piegati l'una verso l'altro,
silenziosi. Coretti provava una strana sensazione. Andò nel bagno e si spruzzò la
faccia di acqua. Tornando, fece in modo di passare a un metro di distanza da
loro. Le loro labbra non si mossero finché non fu a portata d'udito. Si
scambiarono a turno chiacchiere realistiche.
— . .ho visto i suoi primi film, ma. .
— Ma è piuttosto narcisista, non ti pare?
— Sì, ma nel senso che. .
E per la prima volta Coretti seppe cosa erano, cosa dovevano essere. Sono
quella razza di persone che si vedono nei bar, che sembra essere cresciuta lì,
sempre perfettamente a proprio agio. Non ubriachi, ma soprammobili in forma
umana. Viventi in funzione del bar. La razza giusta.
Qualcosa dentro di lui anelava a un confronto. Raggiunse il suo tavolo, ma
scoprì che non gli riusciva di sedersi. Si voltò, tirò un profondo respiro e
camminò rigidamente verso il bar. Voleva toccarla sulla spalla liscia e chiederle
chi era, e cosa era esattamente, e farle osservare l'ironia del fatto che era lui,
Coretti, quello che si vestiva come un marziano, quello che origliava, l'intruso, i
cui abiti e la cui conversazione non erano mai quelli giusti, ad aver finalmente
indovinato il loro segreto.
Ma poi gli mancò il coraggio, e si limitò a sedersi vicino a lei e a ordinare un
bourbon.
— Ma non credi — chiese lei al compagno — che sia tutto relativo?
I due posti oltre l'uomo vennero occupati da una coppia che parlava di
politica. Antoinette e Camicia da Golf raccolsero il tema politico senza fare una
piega, riciclandolo, parlando a voce abbastanza alta da farsi sentire. La faccia di
lei, mentre parlava, era priva di espressione. Un uccello che cinguettava su un
ramo. Sedeva sullo sgabello come se fosse un nido. Camicia da Golf pagò le
consumazioni. Aveva sempre il denaro contato, a meno che non volesse lasciare
una mancia.
Coretti li osservò bere metodicamente sei cocktail ciascuno, come insetti che
si nutrono di nettare. Ma non alzavano mai la voce, le loro guance non si
arrossarono, e quando alla fine si alzarono, si muovevano senza alcuna traccia di
ubriachezza. . una debolezza, pensò Coretti, una falla nel travestimento.
Non gli prestarono la minima attenzione mentre li seguiva nei tre bar
successivi.
Quando entrarono da Waylon's si tramutarono così rapidamente che Coretti
ebbe difficoltà a seguire le fasi della trasformazione. Era uno di quei posti dove
sulla porta della toilette maschile c'era scritto “Pointer” e su quella femminile
“Setter”, e cartellini in finto pino sui barattoli di carne secca e salsicce sottaceto:
“Abbiamo fatto un patto con la banca: loro non servono birra e noi non
prendiamo assegni”.
Da Waylon's lei era grassottella, con occhiaie pesanti. Aveva macchie di caffè
sui pantaloni di poliestere. Il suo compagno indossava jeans e maglietta e un
cappello da baseball rosso con uno scudetto bianco e rosso. Coretti rischiò di
perderli di vista mentre attraversava il caos ed entrava nel “Pointer” per trovarsi
davanti a un cartello scritto a mano che diceva: “Noi miriamo a servirvi. Voi
mirate e basta”.
La Terza Avenue si perdeva vicino al porto in un ghigno pietrificato di case in
mattoni. All'ultimo isolato, macchie colorate di vomito segnavano a intervalli il
marciapiede, e dei vecchi sonnecchiavano davanti a televisori in bianco e nero,
sigillati per sempre dietro le porte a vetri appannate di alberghetti sbiaditi. Il bar
in cui entrarono non aveva nome. Un asso di quadri si stava staccando a scaglie
dalla vetrina sporca, e il barista aveva una faccia che assomigliava a un pugno
chiuso. Una radio a transistor in plastica color avorio ululava del rock easy-
listening sulle file sbilenche di tavoli vuoti. Bevvero birra e liquore. Erano vecchi,
adesso, due zeri che bevevano e fumavano alla luce di lampadine nude tossendo
su un pacchetto accartocciato di Camel che lei aveva tirato fuori dalla tasca di un
impermeabile marrone, sporco.
Alle 2 e 25 erano nel bar sul tetto del nuovo hotel che sorgeva sulla riva del
fiume. Lei indossava un abito da sera, lui un vestito scuro. Bevvero cognac e
fecero finta di ammirare le luci della città. Bevvero tre cognac, mentre Coretti li
guardava alzando gli occhi dal bicchiere di cristallo di Waterford contenente
sessanta grammi di Wild Turkey. Bevvero fino all'ora di chiusura. Coretti li seguì
nell'ascensore. Gli sorrisero educatamente ma per il resto lo ignorarono. C'erano
due taxi di fronte all'hotel; loro presero il primo, Coretti il secondo.
— Seguite quel taxi — disse Coretti con voce roca, passando i suoi ultimi venti
dollari al vecchio autista hippy.
— Certo, come no. . — L'autista seguì l'altro taxi per sei isolati fino a un altro
hotel, più modesto. I due scesero ed entrarono. Coretti scese lentamente dal suo
taxi, respirando a fatica. Si sentiva bruciare di gelosia: per quella
personificazione di conformità sociale, per la donna che non era una donna,
quella tappezzeria umana. Coretti fissò l'albergo. . E perse il coraggio. Se ne andò.
— Camminò fino a casa. Sedici isolati. A un certo punto si rese conto di non
essere ubriaco. Neanche un po'.
La mattina telefonò per cancellare la prima lezione. Ma si accorse che i
postumi della sbronza non arrivavano. Non sentiva la bocca arida, e guardandosi
nello specchio del bagno vide che non aveva gli occhi iniettati di sangue.
Il pomeriggio dormì, e sognò gente con la faccia da pecora riflessa in specchi
dietro file di bottiglie.
Quella sera uscì a cena, da solo. E non mangiò niente. Gli sembrava quasi che il
cibo lo fissasse. Lo sparse un po' per il piatto per far sembrare che l'avesse
assaggiato, pagò e andò in un bar. Poi in un altro. E un altro, cercandola. Stava
usando la sua carta di credito, adesso, anche se era già in rosso con la Visa. Se la
vide, non la riconobbe.
Qualche volta andava all'hotel dove l'aveva vista entrare. Guardava con
attenzione ogni coppia che usciva ed entrava. Non perché sperasse di
riconoscerla semplicemente dal suo aspetto. . Ma capiva che doveva esserci una
“sensazione”, una sorta di riconoscimento intuitivo. Osservò le coppie e non ne
fu mai certo.
Nelle settimane seguenti visitò sistematicamente ogni posto della città dove si
vendesse alcool. Servendosi all'inizio di una pianta della città e di cinque pagine
gialle strappate, si introdusse a poco a poco fin nei locali più oscuri, posti senza
numero del telefono sulla guida.
Alcuni il telefono non ce l'avevano neppure. Si iscrisse a club privati di dubbia
reputazione, scoprì posti senza licenza che rimanevano aperti oltre le ore
consentite, dove bisognava portarsi da bere, e sedette nervosamente in stanze
buie utilizzate per un tipo anomalo di sessualità di cui non aveva mai neppure
sospettato l'esistenza.
Ma proseguì in quello che era diventato il suo circuito notturno. Cominciava
sempre dal Backdoor. Lei non era mai lì, né nel bar successivo, né in quello dopo
ancora. I baristi lo conoscevano, e lo accoglievano bene perché comprava da
bere in continuazione e sembrava che non si ubriacasse mai. Era vero che fissava
un po' gli altri clienti, ma che c'era di male?
Coretti perse il lavoro.
Aveva saltato troppe lezioni. Aveva cominciato a fare la guardia all'hotel anche
di giorno. Era stato visto in troppi bar. Sembrava che non si cambiasse mai
d'abito. Rifiutava i corsi serali. Interrompeva nel bel mezzo una lezione, per
fissare la finestra con occhi vuoti. Provò un segreto piacere ad essere licenziato.
Lo avevano guardato in maniera strana alla mensa, dove non riusciva a
mangiare. E adesso aveva più tempo per la sua ricerca.
Coretti la trovò alle 2.15 di un mercoledì notte in un bar gay chiamato il Barn.
Rivestito di legno grezzo, pieno di cavezze e attrezzi agricoli arrugginiti, il locale
era pieno di profumo, di risate, di birra.
Lei rideva e scherzava con tutti, in un vestito in lustrini blu e con una penna
verde nella cuffia sui capelli castani. Con un sollievo che sentiva quasi fin nelle
cellule, Coretti si rese conto di provare una sorta di ammirazione, uno strano
orgoglio per la donna e per la sua razza. Anche lì lei era a suo agio.
Era l'esempio tipico della donna che amava la compagnia degli omosessuali, e
che non rappresentava per loro alcun pericolo. Il suo compagno era diventato un
uomo senza età, con le tempie argentate, maglione di angora e impermeabile.
Bevevano e bevevano, e uscirono ridendo, con il giusto tipo di risata, nella
pioggia. Un taxi li aspettava. I tergicristalli sembravano duplicare il battito del
cuore di Coretti.
Correndo goffamente sul marciapiede umido, Coretti si infilò nel taxi,
pensando con terrore alla loro reazione.
Coretti si trovò sul sedile posteriore accanto a lei. L'uomo con le tempie
argentate parlò all'autista. L'autista mormorò qualcosa nel microfono, mise in
moto, e scivolarono via nella pioggia e nelle strade buie. Il paesaggio cittadino
non fece alcuna impressione su Coretti, che guardando dentro di sé vedeva il taxi
fermarsi, l'uomo grigio e la donna ridente che lo spingevano fuori e indicavano,
sorridendo, il cancello di un manicomio. Oppure: il taxi che si fermava, la coppia
che si voltava e scuoteva tristemente la testa. E una dozzina di volte gli sembrò
di vedere il taxi fermarsi in una stradina solitaria, dove i due lo strangolavano in
tutta calma. Coretti abbandonato morto nella pioggia. Perché era un intruso.
Ma arrivarono all'albergo di Coretti.
Nella luce fioca della cabina del taxi guardò attentamente l'uomo mentre
infilava una mano nell'impermeabile per pagare. Coretti vide chiaramente la
fodera dell'impermeabile, ed era un pezzo unico con il maglione di angora. Non
c'era alcun rigonfio del portafoglio, nessuna tasca. Ma una fessura si aprì, si
allargò quando le dita dell'uomo vi si appoggiarono sopra e ne uscì del denaro.
Tre banconote ripiegate scivolarono fuori dalla fessura. Il denaro era
leggermente umido. Si asciugò mentre l'uomo lo apriva, come le ali di una
farfalla appena emersa dalla crisalide.
— Tenete il resto — disse l'uomo uscendo dal taxi. Anche Antoinette uscì, e
Coretti la seguì, vedendo con la mente solo la fessura. La fessura umida, con i
bordi rossi, come una branchia. La hall era deserta il portiere di notte intento a
fare le parole crociate. La coppia attraversò silenziosamente la hall ed entrò
nell'ascensore, con Coretti alle calcagna.
— Una volta lui cercò di guardarla negli occhi, ma lei lo ignorò. E una volta,
mentre l'ascensore saliva sette piani oltre quello di Coretti, lei si chinò e annusò
il portacenere cromato appeso alla parete, come un cane che annusi il terreno.
Gli alberghi, a notte fonda, non sono mai tranquilli. I corridoi non sono mai del
tutto silenziosi. Ci sono innumerevoli sospiri appena udibili, il fruscio delle
lenzuola, voci soffocate che mormorano frasi spezzate nel sonno. Ma nel
corridoio del nono piano a Coretti parve di muoversi in un vuoto perfetto, senza
suoni, le scarpe che non facevano alcun rumore sul tappeto incolore, e anche il
battito del suo cuore da intruso risucchiato nel disegno indistinto che decorava
la tappezzeria.
Cercò di contare i piccoli ovali di plastica avvitati alle porte, ciascuno con i
suoi tre numeri, ma il corridoio sembrava proseguire all'infinito. Alla fine l'uomo
si fermò di fronte a una porta, una porta impiallacciata come le altre in finto
palissandro, e appoggiò la mano sulla maniglia, il palmo piatto sul metallo. Si
sentì un rumore stridente, soffocato, poi la serratura che scattava, la porta che si
apriva. Mentre l'uomo ritraeva la mano Coretti vide una scheggia ossea grigio-
rosa a forma di chiave, ritirarsi umida nella carne pallida.
Non c'era nessuna luce accesa nella stanza, ma il bagliore al neon della città
filtrava attraverso le veneziane, permettendogli di vedere le facce di una dozzina
o più di persone sedute sul letto, sul divano, sulle poltrone, sugli sgabelli in
cucina. All'inizio gli parve che tenessero gli occhi aperti, poi si rese conto che le
pupille spente erano coperte da membrane, come una terza palpebra che
rifletteva la luce proveniente dalla finestra. Indossavano gli abiti dell'ultimo bar:
cappotti informi dell'Esercito della Salvezza e abiti sportivi colorati, vestiti
lunghi da sera e tute da lavoro polverose, giacche da motociclista in pelle e
Harris tweed. Con il sonno era svanita ogni traccia di umanità.
Stavano facendo il nido.
La coppia si sedette sul bordo del tavolo in formica della cucina, e Coretti
rimase fermo, incerto, in mezzo al tappeto vuoto. Anni luce di tappeto
sembravano separarlo dagli altri, ma qualcosa lo chiamò, promettendogli riposo,
pace e sicurezza. Ma esitava ancora, scosso da un'indecisione che sembrava
nascergli nel codice genetico di ciascuna cellula.
Fino a quando non aprirono gli occhi, tutti insieme simultaneamente le
membrane che scivolavano di lato rivelando una calma aliena, da abitatori della
fossa più oscura dell'oceano.
Coretti urlò, e corse via, scappò lungo i corridoi e le scale echeggianti in
cemento, fino alla pioggia fresca e alle strade quasi vuote.
Coretti non tornò più alla sua stanza, al terzo piano. Un detective d'albergo
annoiato raccolse i testi di linguistica, l'unica valigia con i vestiti, e alla fine il
tutto venne venduto all'asta. Coretti prese una stanza in una pensione diretta da
un'arcigna signora astemia, di religione battista, che faceva pregare i suoi
inquilini prima di iniziare le cene squallide. Non le importava se Coretti non
partecipava mai. Lui le aveva spiegato che mangiava gratis in mensa. Mentiva
abilmente e abbondantemente. Non beveva mai nella pensione e non tornava
mai a casa ubriaco. Il signor Coretti era un po' strano, ma pagava sempre
puntuale. Ed era molto tranquillo. Coretti smise di cercarla. Smise di andare nei
bar. Beveva da una bottiglia in un sacchetto di carta mentre andava e tornava dal
lavoro, al deposito di una casa editrice, in una zona industriale dove c'erano
pochi bar.
Lavorava di notte.
Qualche volta, all'alba, seduto sul bordo del letto disfatto, mentre scivolava nel
sonno (non dormiva più sdraiato), pensava a lei. Antoinette. E a loro. La razza
giusta. Qualche volta faceva delle ipotesi, sognava. . Forse erano come topi
domestici, animali evoluti per vivere soltanto fra le strutture costruite
dall'uomo. Un animale che si nutre solo di bevande alcooliche. Un particolare
metabolismo che trasforma l'alcool e le varie proteine dei cocktail e del vino e
della birra in qualsiasi cosa serva loro. E possono cambiare il loro aspetto
esteriore come camaleonti o scorpene, per proteggersi. Per poter vivere fra di
noi. E forse, pensò Coretti, passano attraverso vari stadi di crescita. In quelli
iniziali sembrano uomini, mangiano il cibo degli uomini, avvertono la propria
differenza solo per la sensazione fastidiosa di essere degli intrusi. Un animale
dotato di una sua astuzia, di un suo istinto. E della capacità di accorgersi dei suoi
simili, quando sono vicini. Forse. E forse no.
Coretti scivolò nel sonno.
Un mercoledì, tre settimane dopo che aveva iniziato il suo nuovo lavoro, la
padrona di casa aprì la porta (non bussava mai) e gli disse che era desiderato al
telefono. La sua voce era carica di sospetto, come al solito, e Coretti la seguì
lungo il corridoio buio, fino al salotto al secondo piano dove era il telefono.
Sollevando la vecchia cornetta nera all'orecchio, all'inizio sentì solo della musica,
poi un rumore indefinibile che si risolse in un amalgama frammentario di
conversazioni e risate. I rumori del bar non vennero spezzati da alcuna voce, ma
la canzone in sottofondo era “You're the Reason Our Rids Are Ugly”.
Poi il segnale di occupato, quando riappesero.
Più tardi, solo nella sua stanza, ascoltando il passo della padrona di casa al
piano di sotto, Coretti capì che non c'era più alcuna necessità di rimanere
dov'era. La chiamata era arrivata. Ma la padrona chiedeva tre settimane di
preavviso se si intendeva andarsene. Per cui Coretti le doveva del denaro.
L'istinto gli disse di lasciarglielo. Un operaio nella stanza accanto tossì nel sonno,
mentre Coretti si alzava e raggiungeva il telefono. Coretti disse al caposquadra
del turno serale che si licenziava. Riappese e tornò nella sua stanza, chiuse la
porta a chiave e si tolse lentamente i vestiti, fino a rimanere nudo davanti alla
sgargiante litografia di Gesù incorniciata sopra la scrivania in metallo marrone.
Poi contò nove banconote da dieci dollari. Le mise per bene accanto alla targa
con le mani giunte che decorava il piano della scrivania. Erano ottime banconote,
perfettamente legali. Le aveva fatte lui.
Questa volta non aveva nessun desiderio di fare conversazione. Lei stava
bevendo un Margarita, e lui ordinò lo stesso. Lei pagò, estraendo il denaro con
un movimento abile della mano fra i seni che le ondeggiavano sotto la scollatura
bassa. Lui scorse la branchia che si chiudeva. Si sentì eccitato, ma, chissà perché,
l'eccitamento non si risolse in un'erezione.
Dopo il terzo Margarita le loro anche si toccarono, e lui sentì qualcosa
crescergli dentro in lente ondate orgasmiche. Sentiva appiccicaticcio dove si
toccavano, una zona larga quanto un pollice dove i vestiti si erano aperti. Era due
uomini: quello dentro che si fondeva con lei in una comunione totale, e il guscio
che sedeva tranquillo su uno sgabello del bar, i gomiti ai due lati del bicchiere, le
dita che giocherellavano con una bacchetta per mescolare i cocktail. Sorrideva
beatamente. Calmo, nella penombra fresca. E una volta, ma una volta sola, una
parte lontana e preoccupata di lui lo spinse a guardare in basso a vedere morbidi
tubi rossi che pulsavano, viticci sormontati da labbra sottili che si muovevano
nell'ombra. Come i tentacoli intrecciati di due bizzarre anemoni.
Si stavano accoppiando, e nessuno lo sapeva.
E il barista, quando portò ancora una volta da bere, fece un sorriso stanco e
disse: — Non vuole proprio smetterla di piovere, oggi.
— Va avanti così da una settimana — rispose Coretti. — Non se ne può più.
E lo disse proprio bene. Come un vero essere umano.