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Il mercato d'inverno

(The Winter Market, 1986)

Piove molto, quassù; ci sono giorni, in inverno, in cui il cielo non diventa mai

veramente chiaro, solo di un grigio uniforme. Ma ci sono anche giorni in cui è

come se si aprisse di colpo per tre minuti un sipario sulle montagne illuminate

dal sole, sospese nell'aria: come il prologo di un film girato da Dio. Era così il

giorno in cui telefonarono i suoi agenti, dal cuore della loro piramide di specchi

sul Beverly Boulevard, per dirmi che lei era entrata nella rete, che era arrivata in

cima e che “I re del sonno” era tre volte platino. Io ho curato la maggior parte dei

Re, ho fatto il lavoro di rilevamento cerebrale, ho rivisto tutto con il modulo di

cancellazione rapida, perciò mi spettava una parte dei diritti d'autore. No, dissi,

no. Poi sì, sì, e riappesi. Mi infilai la giacca e feci le scale tre gradini alla volta,

entrai nel bar più vicino e mi procurai un black-out di otto ore, che finì su un

cornicione, dove mi ritrovai a solo due metri dalla tenebra della mezzanotte. Le

acque del False Creek.

Le luci della città e la solita calotta grigia del cielo, più piccola adesso,

illuminata dai neon e dalle lampade ai vapori di mercurio. E nevicava, grossi

fiocchi ma non fitti, che quando toccavano l'acqua nera sparivano senza lasciare

alcuna traccia. Mi guardai i piedi, e vidi che le punte sporgevano dal bordo di

cemento bagnato. Indossavo scarpe giapponesi, nuove e costose, stivaletti in

pelle morbida di Ginza con le punte in gomma. Rimasi lì a lungo, prima di fare il

primo passo indietro.

Perché lei era morta, e io l'avevo lasciata andare. Perché adesso lei era

immortale, e io l'avevo aiutata a diventarlo. E perché sapevo che mi avrebbe

telefonato, la mattina.

Mio padre era tecnico del suono. Aveva cominciato molto tempo fa, prima

ancora dell'avvento del digitale. I procedimenti che usava erano in parte

meccanici, fatti di una tecnologia goffa e quasi vittoriana tipica del ventesimo

secolo. Fondamentalmente, era un tornitore: la gente gli portava delle

registrazioni e lui preparava il disco master di lacca. Quindi il disco veniva

placcato elettroliticamente e usato per costruire una lastra dalla quale si

stampavano dischi, quelle cose nere che si vedono nei negozi di antiquariato. E

ricordo che una volta, pochi mesi prima di morire, mi disse che certe frequenze,

credo che le chiamasse transienti, potevano bruciare la testina di taglio del

tornio. Le testine erano costosissime, perciò si usava una cosa chiamata

accelerometro per evitare che si bruciassero. Ed era a questo che pensavo, con i

piedi che sporgevano sull'acqua: quella testina che bruciava.

Perché era questo che le avevano fatto.

Ed era questo quello che lei voleva.

Nessun accelerometro per Lise.

Andando a letto staccai il telefono. Lo feci con un treppiedi tedesco da studio,

che mi sarebbe costato una settimana di paga per farlo riparare.

Mi svegliai qualche tempo dopo e presi un taxi fino a Granville Island, dove

abitava Rubin.

Rubin, anche se nessuno capisce bene come, è un maestro, una guida, quello

che i giapponesi chiamano “sensei”. Ciò di cui è maestro, in realtà, sono i rifiuti,

la spazzatura, le cianfrusaglie, il mare di merci gettate via su cui galleggia la

nostra civiltà. “Gomi no sensei”. Maestro dei rifiuti.

Questa volta lo trovai accoccolato fra due batterie elettroniche dall'aria tetra

che non avevo mai visto: braccia sottili e arrugginite ripiegate sul cuore di una

costellazione di barattoli di ferro ripescati nelle discariche di Richmond. Lui non

chiama mai il suo posto studio, non dice mai di essere un artista. Quello che fa lo

chiama “trafficare”, e sembra considerarlo una specie di prolungamento dei

pomeriggi noiosi passati da bambino in cortile. Vaga nel suo laboratorio pieno

zeppo di cianfrusaglie, una specie di minihangar ricavato sul lato verso il fiume

del Mercato, seguito dalle sue creature più agili e più sveglie, simile a un Satana

quasi benevolo intento a elaborare artifici sempre più bizzarri nel suo Inferno di

“gomi”. Ho visto Rubin programmare le sue costruzioni per identificare e

insultare i pedoni che indossano i vestiti di questo o quello stilista di moda in

una data stagione; altre sono impegnate in missioni più oscure, e alcune

sembrano costruite solo allo scopo di smontarsi con il maggiore fracasso

possibile. È come un bambino, Rubin; ma vale anche un sacco di soldi nelle

gallerie di Tokyo e Parigi.

Così gli raccontai di Lise. Lui mi lasciò parlare, sfogarmi poi annuì.

— Lo so — disse. — Un cazzone della C.B.C. mi ha telefonato otto volte. —

Sorseggiò da una tazza ammaccata. — Vuoi del Wild Turkey sour?

— Perché ti hanno chiamato?

— Perché c'è il mio nome sul retro dei “Re del sonno”. Una dedica.

— Non l'ho ancora visto.

— Ti ha già chiamato?

— No.

— Lo farà.

— Rubin, è morta. L'hanno già cremata.

— Lo so — disse lui. — Ti chiamerà.

“Gomi”.

Dove finisce il “gomi” e inizia il mondo? I giapponesi, un secolo fa, avevano già

esaurito lo spazio per il “gomi” attorno a Tokyo, perciò idearono un piano per

creare spazio dal “gomi”. Entro il 1969 si erano costruiti una piccola isola nella

baia di Tokyo, e l'avevano battezzata Isola dei Sogni. Ma la città continuava a

produrre le sue novemila tonnellate al giorno, così costruirono una Nuova Isola

dei Sogni, e oggi l'intero processo è coordinato, e dal Pacifico continuano a

sorgere nuovi pezzi di Giappone. Rubin osserva tutto questo alla T.V. e non dice

assolutamente nulla. Non ha nulla da dire sul “gomi”. È il suo mezzo, l'aria che

respira, vi ha nuotato per tutta la vita. Gira Vancouver su una specie di furgone

sovradimensionato ricavato da un vecchio Mercedes aeroportuale, il tetto

nascosto da un sacco di gomma mezzo pieno di gas naturale. Cerca oggetti che

possano entrare a fare parte degli strani progetti che la sua inconoscibile Musa

gli disegna nel cervello. Porta a casa altro “gomi”. Certe volte ancora funzionante.

Certe volte, come Lise, umano.

Incontrai Lise ad una delle feste di Rubin. Rubin dà un sacco di feste. Lui

sembra non divertirsi mai particolarmente, ma sono ottime feste. Avevo perso il

conto, quell'autunno, di tutte le volte in cui mi ero svegliato su un materasso di

spugna per sentire il rumore della vecchia macchina da caffè di Rubin, un mostro

annerito sormontato da una grande aquila cromata, il rumore che rimbombava

contro le pareti di lamiera ondulata, assordante ma anche confortante: c'era il

caffè. La vita sarebbe continuata.

La prima volta che la vidi: nella Zona Cucina. Non la definirei esattamente una

cucina: soltanto tre frigoriferi, una piastra elettrica e un forno a convezione

rotto, che faceva parte del “gomi”. La prima volta che la vidi: aveva aperto il frigo

della birra e nella luce interna vidi gli zigomi e la linea decisa della bocca ma vidi

anche il luccichio nero del policarbonio ai polsi, e la piaga liscia e chiara prodotta

dallo sfregamento dell'esoscheletro. Ero troppo ubriaco per connettere, per

capire cos'era, ma sapevo che non era divertente. Così feci quello che fa di solito

la gente con Lise: cambiai rotta. Mi diressi verso il vino, sul tavolo vicino al forno

a convezione. Non mi guardai alle spalle.

Ma lei mi trovò. Venne a cercarmi due ore dopo, insinuandosi fra i corpi e il

ciarpame con quella grazia terribile programmata nell'esoscheletro. Sapevo

cos'era, allora, mentre la guardavo dirigersi sul bersaglio, troppo imbarazzato

per schivarla, per scappare, per farfugliare qualche scusa e uscire. Bloccato lì,

con un braccio attorno alla vita di una ragazza che non conoscevo, mentre Lise

avanzava, anzi, che veniva spinta avanti, con quella grazia beffarda, dritta verso

di me, gli occhi che le bruciavano di wiz, e la ragazza si liberò di me

allontanandosi in un panico silenzioso, era sparita, e Lise era lì di fronte a me,

sostenuta dalla sottile protesi di policarbonio. Guardai dentro quegli occhi, e mi

sembrò quasi di sentirle ronzare le sinapsi, un grido stridulo, mentre il wiz le

apriva tutti i circuiti del cervello.

— Portami a casa — disse, e le parole mi colpirono come una frustata.

Credo di aver scosso la testa. — Portami a casa. — Sentivo dolore, in quella

voce, e astuzia, e una crudeltà stupefacente. E in quel momento capii che

nessuno mi aveva mai odiato così profondamente e completamente come quella

ragazzina distrutta: mi odiava per come l'avevo guardata e poi avevo distolto lo

sguardo, accanto al frigorifero della birra di Rubin.

Così feci una di quelle cose che si fanno e di cui non si scopre mai il perché,

anche se qualcosa dentro sa che non c'era modo di fare altrimenti.

La portai a casa.

Ho due stanze in un vecchio condominio all'angolo dell'incrocio fra la Quarta e

la MacDonald, decimo piano. Gli ascensori di solito funzionano, e se ci si siede

sulla balaustra del balcone, sporgendosi in fuori e tenendosi attaccato all'angolo

dell'edificio vicino, si riesce a vedere una piccola sezione verticale di mare e

montagne. Lei non aveva detto una parola per tutto il tragitto, e io cominciavo a

essere abbastanza sobrio per sentirmi a disagio, mentre aprivo la porta e la

facevo entrare.

La prima cosa che lei vide fu il modulo portatile di cancellazione rapida che mi

ero portato a casa dal Pilot la sera prima. L'esoscheletro la spinse ad

attraversare il tappeto polveroso con quel passo da modella a una sfilata. Una

volta lontani dal frastuono della festa lo sentivo ticchettare sommessamente a

ogni suo gesto. Rimase lì a guardare il modulo. Vedevo i supporti

dell'apparecchio, quando stava ferma, sporgere sotto la giacca di pelle nera

consunta. Una di quelle vecchie malattie per cui non sono mai riusciti a trovare

una cura, o una di quelle nuove, evidentemente di origine ambientale, a cui

hanno appena dato un nome. Non poteva muoversi senza quello scheletro

supplementare, ed era collegato direttamente al suo cervello, interfaccia

mioelettrica. I supporti di policarbonio apparentemente fragili le muovevano le

braccia e le gambe, ma un sistema più sofisticato si occupava delle mani sottili,

mediante innesti galvanici. Mi vennero in mente delle zampe di rana che si

contraevano in un nastro visto a scuola, poi ebbi disgusto di me stesso per averci

pensato.

— Questo è un modulo per la cancellazione veloce — disse lei, in una voce che

non avevo sentito prima, assente, e pensai allora che forse gli effetti del wiz si

stavano esaurendo. — Cosa ci fa qui.

— Faccio il curatore — dissi, chiudendomi la porta alle spalle.

— Davvero? — disse lei, e rise. — E dove lavori?

— Sull'Isola. Un posto che si chiama Automatic Pilot.

Lei si voltò; poi, con una mano appoggiata all'anca, girò su se stessa (o meglio,

l'esoscheletro la girò), e quegli occhi grigio slavato mi trafissero con uno sguardo

carico di wiz e odio e una terribile parodia di passione. — Vuoi scoparmi,

curatore? E sentii di nuovo il colpo di frusta, ma questa volta non intendevo

rimanere passivo. Perciò le rivolsi uno sguardo gelido che proveniva dal

profondo di me, di quel corpo pieno di birra che parlava e camminava e si

muoveva da sé, ma altrimenti del tutto normale. Le parole mi uscirono di bocca

come uno sputo. — Proveresti qualcosa, se lo facessi?

Colpita. Forse sbatté le sopracciglia, ma non vidi altro segno di emozione. —

No — disse. — Ma qualche volta mi piace guardare.

Rubin è in piedi vicino alla finestra, due giorni dopo la sua morte a Los

Angeles, a fissare la neve che cade nel False Creek. — Allora non sei mai andato a

letto con lei?

Uno dei suoi giocattolini simili a piccole lucertole alla Escher su ruote, corre

sul tavolo di fronte a me, tutto raggomitolato.

— No — dico, ed è vero. Poi rido. — Ma ci siamo collegati. Quella prima notte.

— Sei matto — dice, con una certa approvazione nella voce. — Potevi morire.

Poteva fermarsi il cuore, o il respiro. . — Si volta verso la finestra. — Ti ha

chiamato?

Ci collegammo.

Non l'avevo mai fatto prima. Se mi avessero chiesto il perché, avrei risposto

che ero un curatore e che la cosa non era professionale. La verità sarebbe

piuttosto qualcosa del genere: nel nostro mestiere, in quello legale (non mi

occupo di porno) il prodotto grezzo lo definiamo “sogno asciutto”. I sogni

asciutti sono l'emissione neurale di livelli di coscienza a cui la maggior parte

delle persone può accedere solo in sogno. Ma gli artisti, quelli con cui io lavoro

all'Automatic Pilot, sono in grado di rompere la tensione superficiale, di

immergersi nel profondo del mare di Jung, e di risalire riportando. . Be' dei sogni.

Mettiamola in termini semplici. Immagino che certi artisti l'abbiano sempre

fatto, con qualsiasi mezzo, ma la neuroelettronica ci permette di entrare in

contatto diretto con l'esperienza, e la rete la diffonde dappertutto via cavo;

perciò possiamo impacchettarla venderla, vedere come si comporta sul mercato.

Be', più le cose cambiano. . è una cosa che mi diceva sempre mio padre.

Di solito io ricevo il materiale grezzo in studio, filtrato da macchinari che

valgono parecchi milioni di dollari, e non vedo neppure l'artista. La merce che

vendiamo è stata strutturata, bilanciata, trasformata in arte. C'è ancora gente

tanto ingenua da credere che proverebbe piacere a collegarsi direttamente a

qualcuno che ama. Penso che la maggior parte dei ragazzini ci provino, almeno

una volta. Certo è facile a farsi; basta prendere unità centrale, elettrodi e cavi alla

Radio Shack. Ma io non l'ho mai fatto. E adesso che ci penso, non sono tanto

sicuro di saperne spiegare il perché. O di volerci provare.

So perché lo feci con Lise, perché mi sedetti accanto a lei sul divanetto

messicano e infilai il cavo ottico nella presa che aveva sulla spina dorsale, il

bordo liscio dell'esoscheletro. Era in alto, alla base del collo, nascosta dai capelli

scuri. Perché lei affermava di essere un'artista, e perché io sapevo che eravamo

in qualche modo impegnati in un duello senza tregua, e io non volevo perdere.

Può darsi che per altri non abbia molto senso, ma gli altri non l'hanno mai

conosciuta, oppure la conoscono attraverso “I re del sonno”, che non è la stessa

cosa. Gli altri non hanno mai sentito quella sua avidità ridotta a un bisogno

arido, spaventoso nella sua determinazione. La gente che sa sempre esattamente

quello che vuole mi spaventa, e Lise sapeva quello che voleva da molto tempo.

Non voleva altro.

E io avevo paura, allora, di ammettere di avere paura, e avevo visto

abbastanza sogni di estranei, nella sala di missaggio dell'Automatic Pilot, per

sapere che i mostri interiori della maggior parte della gente sono cose sciocche,

ridicole alla luce della propria coscienza. Ed ero ancora ubriaco.

Mi misi gli elettrodi e allungai la mano verso il pulsante dell'unità. Avevo

escluso le funzioni di studio, trasformando momentaneamente un apparecchio

elettronico giapponese da 80 mila dollari nell'equivalente di una di quelle

scatolette da niente della Radio Shack. — Via — dissi, e schiacciai il pulsante.

Parole. Le parole non possono. O forse sì, solo lontanamente, se sapessi

almeno come cominciare a descriverlo, quello che uscì da lei, quello che fece. .

C'è una sequenza nei “Re del sonno”: è come trovarsi su una motocicletta a

mezzanotte, senza luci ma non ce n'è bisogno, e si corre lungo una strada, alta su

una scogliera, così veloci da stare sospesi in un cono di silenzio, il tuono della

moto perso alle spalle. . È solo un attimo nei “Re”, ma è una delle mille cose che si

ricordano, a cui si torna, che si incorporano nel proprio vocabolario di

sensazioni.

Straordinario. Libertà e morte, proprio lì, lì: la lama del rasoio per sempre.

Quello che provai era la versione originale di quella corsa, un pugno nello

stomaco, un'esplosione di povertà, di solitudine, di oscurità. E quella era

l'ambizione di Lise, quella corsa, “vista dall'interno”.

Probabilmente non durò più di quattro secondi.

E naturalmente lei vinse.

Mi tolsi gli elettrodi e fissai la parete, gli occhi umidi, i poster incorniciati che

ondeggiavano davanti a me.

Non potevo guardarla. La sentii staccare il cavo ottico, sentii l'esoscheletro

scricchiolare mentre la sollevava dal divano. Lo sentii ticchettare

sommessamente mentre la trasportava in cucina a prendere un bicchiere

d'acqua.

Poi cominciai a piangere.

Rubin inserisce una sottile sonda nella pancia di un giocattolo più lento degli

altri e osserva i circuiti attraverso occhiali a ingrandimento con faretti in

miniatura montati sulle tempie.

— E allora? Ti sei fatto incastrare. — Si stringe nelle spalle, alza gli occhi. È

buio adesso, e i due raggi di luce mi colpiscono la faccia; è umido in quel suo

hangar di ferro, e si sente l'ululato solitario di una sirena da nebbia, sul fiume. —

E allora? Stavolta sono io ad alzare le spalle. — Ho solo. . Mi sembrava che non ci

fosse altro da fare.

I raggi tornano al cuore in silicio del suo giocattolo difettoso. — Allora sei a

posto. È stata una vera scelta. Voglio dire che lei era destinata ad essere quello

che è. Hai a che fare con quello che lei è oggi quanto ne ha quel modulo di

cancellazione veloce. Se non avesse trovato te avrebbe trovato qualcun altro.

Feci un patto con Barry, il redattore capo, e ottenni venti minuti, alle cinque di

una fredda mattina di settembre. Lisa venne e mi colpì con la stessa intensità, ma

stavolta ero preparato con i filtri e le mappe cerebrali e non ero costretto a

sentirlo. Mi ci vollero due settimane, rubando i minuti nella sala di montaggio,

per montare quello che lei aveva fatto in maniera da poterlo mostrare a Max

Bell, che sarebbe il proprietario del Pilot.

Bell non era apparso per niente entusiasta mentre gli spiegavo quello che

avevo fatto. I curatori troppo indipendenti possono creare problemi; capita

spesso che si convincano di aver trovato qualcuno di eccezionale, un genio, e

cominciano a sprecare tempo e denaro. Annuì quando ebbi finito il mio

discorsetto, poi si grattò il naso con il cappuccio del suo pennarello rosso. —

Hmm. Ho capito. La cosa più straordinaria dal giorno che ai pesci sono cresciute

le gambe, giusto? Ma aveva inserito la cassetta che avevo registrato, e quando

uscì dalla fessura della sua unità Braun da tavolo, fissava il muro, la faccia

inespressiva.

— Max?

— Eh?

— Cosa ne pensi?

— Penso? Be'.. Come hai detto che si chiama? — Sbatté le palpebre. — Lisa?

Con chi ha firmato?

— Lise. Nessuno, Max. Non ha ancora firmato con nessuno.

— Cristo. — La sua faccia era ancora inespressiva.

— Sai come l'ho trovata? — chiede Rubin, facendosi strada fra scatole di

cartone sfasciate per raggiungere l'interruttore della luce. Le scatole sono piene

di “gomi” accuratamente catalogato: batterie al litio, condensatori al tantalio,

morsetti R.F. lastre per circuiti, nastri barriera, trasformatori ferrorisonanti,

bobine di cavi per sbarre collettrici. . Una scatola è piena di teste tagliate di

Barbie, un'altra di guanti industriali, simili a quelli delle tute spaziali. La luce

riempie la stanza, e una specie di mantide di Kandinsky, in latta tagliuzzata e

dipinta, ruota la testa grande come una palla da golf verso il bulbo luminoso. —

Ero dalle parti di Granville, alla ricerca di “gomi”, in un vicolo, e l'ho trovata

seduta lì. Ho visto lo scheletro e lei che non sembrava stesse troppo bene, e le ho

chiesto se aveva bisogno di aiuto. Niente. Ha chiuso solo gli occhi. Non sono

affari miei, penso. Ma mi capita di ripassare di lì circa quattro ore dopo, e lei non

si è mossa. «Senti, tesoro» le dico «forse quell'aggeggio si è guastato. Posso

aiutarti, d'accordo?» Niente. «Da quanto tempo sei qui?» Niente. Così riparto. —

Va al tavolo di lavoro, e sfiora le sottili membra metalliche della cosa-mantide

con un indice pallido. Dietro il bancone, appesi a vecchie lastre di compensato

perforato e gonfio di umidità, ci sono attrezzi: pinze, cacciaviti, pistole

incollanastri, un fucile Daisy B.B. arrugginito, spelafili, piegatubi, sonde logiche,

cannelli ossidrici, un oscilloscopio tascabile, apparentemente tutti gli strumenti

della storia umana, e sembra che nessuno abbia mai fatto il tentativo di metterli

in ordine, anche se non ho mai visto la mano di Rubin esitare.

— Così sono tornato indietro — dice. — Dopo un'ora circa. Era svenuta priva

di sensi, perciò l'ho portata qui e ho dato una controllata all'esoscheletro. Le

batterie erano esaurite. Era strisciata fin là, quando l'energia stava finendo,

preparandosi a morire di fame, immagino.

— Quando è successo?

— Circa una settimana prima che tu la portassi a casa.

— E se fosse morta? Se tu non l'avessi trovata?

— L'avrebbe trovata qualcun altro. Lei non poteva “chiedere” niente, capisci.

Solo prendere. Non poteva sopportare un favore.

Max le trovò degli agenti, e un trio di soci giovani, elegantissimi, arrivò su un

Lear all'Y.V.R., il giorno dopo. Lise si rifiuta di venire al Pilot per incontrarli, e

insistette perché li portassimo da Rubin, dove lei dormiva.

— Benvenuti a Couverville — disse Rubin mentre entravano. Aveva la lunga

faccia macchiata di grasso, e la patta dei pantaloni da lavoro stracciati tenuta più

o meno chiusa da una graffetta storta. I due ragazzi sorrisero automaticamente,

ma c'era qualcosa di più autentico nel sorriso della ragazza. — Signor Stark —

disse — ero a Londra la settimana scorsa. Ho visto la vostra installazione alla

Tate.

— “La fabbrica di batterie di Marcello” — disse Rubin. — Dicono che sia

scatologica, gli inglesi. . — Alzò le spalle. — Inglesi. Cioè, chi lo sa?

— Hanno ragione. È anche molto divertente.

I ragazzi facevano grandi sorrisi luminosi, abbronzati nei loro vestiti eleganti.

Il nastro dimostrativo aveva raggiunto Los Angeles. Sapevano tutto.

— E tu sei Lise — disse lei, facendosi strada fra il “gomi” ammucchiato di

Rubin. — Presto sarai una persona molto famosa, Lise. Abbiamo un sacco di cose

di cui parlare. .

E Lise rimase ferma lì, tenuta in piedi dal policarbonio, e l'espressione sulla

sua faccia era quella che le avevo visto quella prima sera nel mio appartamento,

quando mi aveva chiesto se volevo andare a letto con lei. Ma se la giovane agente

se ne accorse, non lo diede a vedere. Era una professionista.

Mi dissi che anch'io ero un professionista.

Mi dissi di prendermela calma.

Fuochi fatti coi rifiuti bruciano in bidoni di ferro attorno al Mercato. La neve

sta ancora cadendo e i bambini si raccolgono attorno alle fiamme come clown

artritici, saltellando da un piede all'altro, con il vento che fa sbattere i cappotti

scuri. Fra la confusione pseudoartistica di Fairview c'è del bucato steso gelato,

lenzuola quadrate rosa che si stagliano contro il nero dello sfondo e l'ammasso

di antenne per satellite e pannelli solari. Il mulino a vento di un ecologista gira

instancabile, come in un gesto osceno rivolto ai prezzi della Hydro.

Rubin cammina pesantemente con scarpe di gomma L. L Bean sporche di

pittura, la grossa testa affondata in un giaccone da lavoro troppo grande. Ogni

tanto uno dei ragazzini accoccolati vicino ai fuochi lo indica mentre passiamo: il

tipo che costruisce quelle cose assurde, i robot, quelle cazzate là.

— Sai qual è il tuo guaio? — dice quando siamo sotto il ponte, diretti verso la

Quarta. — Tu sei il classico stronzo che vuol sempre leggere prima il manuale.

Qualunque cosa la gente costruisca, qualsiasi tipo di tecnologia, deve avere

qualche scopo specifico. Serve a fare qualcosa che qualcuno ha già capito. Ma se

si tratta di una nuova tecnologia, aprirà degli spazi a cui nessuno aveva mai

pensato prima. Tu invece leggi il manuale e non ti sogni neanche di cambiare

una virgola. E ti senti sconvolto quando qualcuno la usa per fare qualcosa a cui

non avevi mai pensato. Come Lise.

— Non è stata la prima. — Rumore di traffico, sopra le nostre teste.

— No, ma sicuramente è la prima persona che tu conosca che si sia tradotta in

un programma. Sei stato sveglio la notte quando quel francese, come si

chiamava, lo scrittore, l'ha fatto, tre o quattro anni fa?

— Non ci ho pensato molto. Un trucco pubblicitario. .

— Sta ancora scrivendo. La cosa terribile è che continuerà a scrivere, a meno

che qualcuno non gli faccia saltare il mainframe. . Ebbi un brivido e scossi la

testa. — Ma non è LUI. È solo un programma.

— Questo è un problema interessante. Difficile a dirsi. Con Lise, però, lo

scopriremo. Non è una scrittrice.

Lei l'aveva tutto chiuso nella testa, i “Re”, proprio come il suo corpo era

chiuso nell'esoscheletro.

Gli agenti la scritturarono per un'etichetta e fecero venire una squadra di

produzione da Tokyo. Lei disse che voleva me come curatore. Io dissi di no; Max

mi trascinò nel suo ufficio e minacciò di licenziarmi su due piedi. Se non mi

sentivo coinvolto, non c'era alcuna ragione per cui lavorassi al Pilot. Vancouver

non era il centro del mondo, e gli agenti la volevano a Los Angeles. Per lui

significava un sacco di soldi, e avrebbe messo l'Automatic Pilot nel giro. Non

potevo spiegargli perché avevo rifiutato. Era troppo assurdo, troppo personale;

per lei era l'ultima trincea. O almeno così pensavo allora. Ma Max faceva sul

serio. Non mi lasciò alcuna alternativa. Entrambi sapevamo che non mi sarebbe

capitato facilmente un altro lavoro. Uscii insieme a lui, e dicemmo agli agenti che

avevamo risolto la questione: c'ero anch'io.

Gli agenti ci fecero il culo.

Lise tirò fuori un inalatore pieno di wiz e si tirò un bel flash. Probabilmente

l'agente femmina alzò appena il sopracciglio per la sorpresa, ma la censura non

andò più in là. Una volta firmati i documenti, Lise poteva fare più o meno quello

che voleva. E Lise sapeva sempre quello che voleva.

Facemmo “I re” in tre settimane, la registrazione di base. Trovai una serie di

scuse per evitare la casa di Rubin, e ad alcune ci credevo anch'io. Lei stava

ancora da Rubin, anche se gli agenti non erano molto contenti di quella che a

loro sembrava una completa assenza di misure di sicurezza. Rubin mi raccontò

più tardi che aveva dovuto farli chiamare dal suo agente e minacciarli, ma dopo

avevano smesso di preoccuparsi. Non sapevo che Rubin avesse un agente. Era

facile dimenticarsi che Rubin Stark, allora, era più famoso di chiunque altro

conoscessi, più famoso certamente di quanto pensassi potesse diventare Lise.

Sapevo che lavoravamo su qualcosa di grosso, ma fino a che punto può esserlo

non lo si sa mai.

Durante il tempo che passavo al Pilot, ero impegnato al massimo. Lise era

straordinaria.

Era come se fosse nata per quel lavoro, anche se la tecnologia che lo rendeva

possibile non esisteva neppure quando lei era venuta al mondo. Uno vede una

cosa del genere e si chiede quante migliaia, forse milioni di artisti fenomenali

sono morti muti, lungo i secoli; artisti che non avrebbero mai potuto essere poeti

o pittori o suonatori di sassofono, ma che avevano qualcosa dentro, onde

psichiche che avevano bisogno solo dei circuiti adatti per uscire fuori. . Appresi

alcune cose su di lei, incidentalmente, lavorando insieme nello studio. Che era

nata a Windsor. Che suo padre era americano, aveva combattuto in Perù ed era

tornato a casa pazzo e mezzo cieco. Che tutto quello che non andava nel suo

corpo era congenito. Che aveva quelle piaghe perché non voleva mai togliersi

l'esoscheletro: si sentiva soffocare fino alla morte al pensiero di essere

completamente inabile. Che era drogata, e prendeva ogni giorno tanto wiz da

bastare a una squadra di rugby.

I suoi agenti fecero venire dei medici, che imbottirono le strutture di

policarbonio con della gomma e le chiusero le piaghe con cerotti microporosi. La

riempirono di vitamine e le modificarono la dieta, ma nessuno cercò mai di

toglierle l'inalatore.

Fecero venire anche parrucchieri e artisti del trucco e costumisti e costruttori

d'immagine e quegli stronzetti blateranti delle Pubbliche Relazioni, e lei

sopportò tutto con una specie di sorriso sulle labbra.

E per tutte quelle tre settimane non parlammo. Solo quello che serviva per il

lavoro, fra artista e curatore, in gran parte un codice speciale. La sua capacità

immaginativa era così potente, così assoluta, che non aveva mai bisogno di

spiegarmi un certo effetto. Io prendevo quello che lei produceva, ci lavoravo

sopra e glielo restituivo. Lei diceva sì o no, di solito sì. Gli agenti se ne accorsero,

approvarono e diedero delle pacche sulla schiena di Max Bell, e lo portarono

fuori a cena, e mi vidi aumentare il salario. E mi comportai costantemente da

perfetto professionista. Servizievole, preciso, gentile. Ero deciso a non lasciarmi

andare un'altra volta, e non pensai più a quella notte in cui mi ero messo a

piangere, e stavo anche facendo il lavoro migliore che avessi mai fatto, e lo

sapevo, e questo era di per sé esaltante.

Poi, una mattina, verso le sei, dopo una lunghissima sessione (dopo che lei

aveva creato per la prima volta quella bizzarra sequenza di danza, quella che i

ragazzi chiamano il Ballo dei Fantasmi), mi parlò. Uno dei due agenti maschi era

rimasto con noi a fare il duro, ma adesso se n'era andato e il Pilot era silenzioso

come una tomba, si sentiva solo il ronzio di un telefono, dalle parti dell'ufficio di

Max.

— Casey — disse, la voce roca per il wiz — scusa se ti ho colpito così duro.

Per un minuto pensai che stesse parlando della registrazione che avevamo

appena fatto. Alzai gli occhi e la vidi lì, e mi venne in mente che eravamo soli, e

non eravamo più stati soli da quando avevamo fatto quel nastro dimostrativo.

Non sapevo cosa dire. Non sapevo neppure cosa sentivo. In piedi nel suo

esoscheletro, aveva un aspetto ancora peggiore che quella prima notte da Rubin.

Vedevo sotto la roba che i truccatori le mettevano sulla faccia e capivo che il wiz

la stava consumando. A volte sembrava di vedere un teschio affiorare sotto la

faccia di una ragazzina non troppo bella. Non avevo idea di quanti anni avesse.

Né vecchia né giovane.

— Effetto truffa — dissi, arrotolando un pezzo di cavo.

— Come?

— È il sistema che usa la natura per dirti di piantarla. È una specie di legge

matematica: puoi avere vera soddisfazione da uno stimolante solo un tot di

volte, anche se aumenti la dose. Ma non riuscirai mai a ricavarne l'effetto che hai

provato le prime volte. O comunque non ne saresti capace. Questo è il guaio con

le droghe sintetiche: sono troppo furbe. Quella roba che ti prendi ha un trucco in

una molecola: impedisce all'adrenalina decomposta di trasformarsi in

adrenocroma. Altrimenti saresti schizofrenica, ormai. Hai qualche piccolo

problema, Lise? Apnea, per esempio? Qualche volta ti capita di non riuscire a

respirare, quando dormi?

Ma non ero neppure sicuro di provare l'ira che sentivo nella mia voce. Lei mi

fissò con quei pallidi occhi grigi. I costumisti le avevano sostituito la giacca da

quattro soldi con una nero opaco, di pelle morbida, che nascondeva meglio i

supporti di policarbonio. Lei la teneva sempre allacciata fino al collo, anche se

faceva troppo caldo nello studio. I parrucchieri avevano provato qualcosa di

nuovo il giorno prima, ma non aveva funzionato bene, e i suoi capelli scuri e

ispidi erano come un'esplosione sghemba che incoronava la faccia tirata,

triangolare. Lei mi fissò e io la sentii ancora, quella decisione assoluta.

— Io non dormo, Casey.

Fu soltanto dopo molto tempo che mi ricordai che aveva detto che le spiaceva.

Non lo fece più, e fu la sola volta in cui le sentii dire qualcosa non in sintonia col

personaggio.

La dieta di Rubin consiste di sandwich di distributori automatici, piatti

pakistani da asporto e caffè espresso. Non l'ho mai visto mangiare altro.

Mangiamo “samosas” in un buco sulla Quarta con un unico tavolo di plastica

incastrato fra il bancone e la porta del cesso. Rubin mangia la sua dozzina di

“samosas”, sei con la carne e sei con la verdura con assoluta concentrazione, una

dopo l'altra senza mai pulirsi la bocca.

È un cliente affezionato. Detesta il cameriere greco e il sentimento è reciproco.

Una vera relazione. Se il cameriere se ne andasse, probabilmente Rubin non ci

tornerebbe più. Il greco osserva cupo le briciole sul mento e sulla giacca di

Rubin. Fra una “samosa” e l'altra lui gli lancia occhiate altrettanto cattive, gli

occhi stretti dietro le lenti sporche degli occhiali cerchiati.

Le “samosas” sono la cena. Per colazione ci sono uova in insalata su fette di

pane bianco scipito impacchettate in triangoli di plastica bianca, con sei tazze di

espresso velenoso.

— Tu non ti sei accorto di quello che stava per succedere, Casey. — Mi sbircia

dalle lenti spesse e cosparse di impronte digitali. — Perché tu non sei capace di

pensare indirettamente. Sei solo capace di leggere il manuale. Cosa credevi che

volesse? Sesso? Più wiz? Il giro del mondo? Aveva superato tutto questo. È

questo che la rende così forte. L'aveva superato. È per questo che “I re del

sonno” è così intenso, e i ragazzi lo comprano, e ci credono, ci credono davvero.

Loro capiscono. Quei ragazzini al Mercato che si scaldano il sedere attorno ai

fuochi senza sapere se troveranno un posto per dormire, ci credono. È il

programma più forte da otto anni. Un tale di un negozio a Granville mi ha detto

che gli rubano più copie di quel maledetto affare di quante ne venda di tutto il

resto. Dice che è un problema anche fare le scorte. . Lei è grande perché è come

loro, solo di più. Lei sapeva, capisci? Nessun sogno, nessuna speranza. Tu non le

vedi le gabbie attorno a quei ragazzi, Casey, ma una cosa la capiscono, sempre

meglio: che non potranno mai andarsene. — Si pulisce il mento da un pezzetto di

carne unto senza accorgersi degli altri tre. — E lei lo ha cantato per loro, lo ha

detto come loro non sanno dirlo, gli ha dipinto un quadro. E ha usato i soldi per

comprarsi una via d'uscita, ecco tutto.

Osservo l'umidità colare in grosse gocce lungo i vetri striati della finestra.

All'esterno si scorge una Lada parzialmente smontata, senza ruote, gli assali

appoggiati sull'asfalto.

— Quanta gente l'ha fatto, Rubin? Tu lo sai?

— Non molti. È difficile dirlo, però, perché molti di loro probabilmente sono

uomini politici che crediamo morti una volta per tutte. — Mi lancia un'occhiata

strana. — Non è un'idea simpatica. Comunque, loro avevano la possibilità di

mettere le mani per primi sul “know-how”. Costa ancora troppo per i comuni

miliardari, ma ho sentito di almeno sette di loro; dicono che la Mitsubishi l'abbia

fatto a Weinberg prima che il sistema immunitario gli andasse definitivamente

in vacca. Era a capo del loro laboratorio ibridomico a Okayama. Be', le loro azioni

sono ancora piuttosto alte per la monoclonazione, perciò forse quello che si dice

in giro è vero. E Langlais, il ragazzo francese, lo scrittore. . — Alza le spalle. —

Lise non aveva i soldi per farlo. Ma si è inserita nel posto giusto al momento

giusto. Stava per tirare le cuoia, era a Hollywood, e loro si erano già accorti di

cosa poteva diventare “I re del sonno”.

Il giorno in cui finimmo, il gruppo scese da uno shuttle JAL proveniente da

Londra: quattro ragazzi magri che funzionavano come una macchina bene oliata,

avevano una concezione ipertrofica della moda e sembravano non preoccuparsi

di niente. Li sistemai in fila al Pilot, su sedie da ufficio Ikea bianche, misi loro

sulle tempie la pasta salina, appiccicai gli elettrodi e gli feci provare una versione

provvisoria di quello che sarebbe stato “I re del sonno”. Quando ne uscirono,

cominciarono a parlare tutti insieme, ignorandomi totalmente, nella versione

inglese di quel linguaggio segreto che usano tutti i musicisti da studio. Quattro

paia di mani pallide che si agitavano in aria.

Ne capii abbastanza per decidere che erano emozionati. Che pensavano che

era buono. Perciò presi la giacca e me ne andai. Potevano anche pulirsi da soli la

pasta salina.

E quella sera vidi Lise per l'ultima volta, anche se non ne avevo avuto

l'intenzione.

Tornando per il Mercato, Rubin digerisce rumorosamente la cena, le luci di

posizione rosse si riflettono sul selciato umido, la città dietro il Mercato è come

una pulita scultura di luce, una bugia, dove i reietti e i disperati scavano nel

“gomi” che cresce come humus alla base delle torri di vetro. .

— Devo andare a Francoforte, domani, per fare un'installazione. Vuoi venire?

Posso farti passare per un tecnico. — Si infagotta ancora di più nel giaccone da

lavoro. — Non posso pagarti, ma il biglietto è gratis, se vuoi. .

Strana offerta da parte di Rubin, e so che lo fa perché è preoccupato per me,

pensa che me la sto prendendo troppo per Lise, ed è l'unica cosa che gli viene in

mente, portarmi via dalla città.

— A Francoforte fa ancora più freddo che qui, adesso.

— Forse hai bisogno di cambiare aria, Casey, non so. .

— Grazie, ma Max ha un sacco di lavoro in attesa. Il Pilot è diventato

importante, adesso, c'è gente che arriva da ogni parte. .

— Capisco.

Dopo aver lasciato il gruppo al Pilot, andai a casa. Camminai fino alla Quarta e

presi il tram, passando accanto alle vetrine dei negozi che vedo ogni giorno,

piene di luci sgargianti, vestiti, scarpe, software, motociclette giapponesi

accucciate come scorpioni smaltati, mobili italiani. Le vetrine cambiano ogni

stagione, i negozi vanno e vengono. Era il periodo prima delle vacanze, e c'era

più gente del solito nelle strade, un sacco di coppiette che camminavano rapide e

decise accanto alle vetrine, per cercare un oggettino per qualcuno, la metà delle

ragazze con quegli stivali aderenti di nylon alti fino alla coscia arrivati da New

York la stagione scorsa, quelli che secondo Rubin le fanno sembrare come se

avessero tutte l'elefantiasi. Sorrisi, pensandoci, e d'improvviso mi resi conto che

era finita, che non avrei più avuto niente a che fare con Lise, che adesso sarebbe

stata risucchiata verso Hollywood inesorabilmente come se avesse messo un

piede in un buco nero. Attratta dalla inimmaginabile forza del Denaro. Credendo

questo, che se n'era andata, che probabilmente se n'era GIÀ andata, abbassai la

guardia dentro me stesso, e sentii i sintomi della pietà. Ma solo i sintomi, perché

non volevo farmi rovinare la serata. Volevo divertirmi. Era un po' che non lo

facevo. Scesi alla mia fermata, e l'ascensore arrivò al primo tentativo. Buon

segno, mi dissi. Arrivato a casa mi spogliai e feci una doccia, presi una camicia

pulita e misi dei “burritos” nel forno a microonde. Cerca di sentirti normale,

consigliai alla mia immagine riflessa mentre mi facevo la barba. Hai lavorato

troppo. Il conto in banca ti sta scoppiando. È ora di porre rimedio.

I “burritos” sapevano di cartone, ma decisi che mi piacevano perché erano

normali in modo quasi perentorio. La mia macchina era da Burnaby, per riparare

la cellula all'idrogeno che perdeva, perciò non dovevo preoccuparmi di guidare.

Potevo divertirmi finché volevo e telefonare la mattina dopo dicendo che ero

ammalato. Max non avrebbe detto niente; ero il pupillo. Aveva un debito con me.

Sei in debito con me, Max, dissi alla bottiglia di Moskovskaya sottozero che

pescai dal congelatore. Lo sarai sempre. Ho appena passato tre settimane a

sistemare i sogni e gli incubi di una persona molto incasinata, Max. A tuo

vantaggio. Per permetterti di crescere e di arricchirti, Max. Mi versai tre dita di

vodka in un bicchiere di plastica rimasto da una festa che avevo dato un anno

prima, e tornai nel soggiorno.

Qualche volta mi sembra che là dentro non ci viva nessuno. Non che sia

particolarmente in disordine; sono un bravo uomo di casa, anche se un po'

macchinoso, e mi ricordo perfino di fare la polvere alle cornici, ma a volte

succede che questo posto mi dia d'improvviso i brividi a vedere tutti quei beni di

consumo accatastati. Voglio dire, non è che voglia riempirlo di gatti o piante, o

roba del genere, ma ci sono dei momenti in cui mi accorgo che chiunque

potrebbe viverci o possedere queste cose, e sembra tutto intercambiabile, la mia

vita e la vostra, la mia vita e quella di chiunque. .

Credo che anche Rubin veda le cose in questo modo, sempre, ma per lui è una

fonte di energia. Lui vive nei rifiuti degli altri, e tutto quello che si porta a casa

doveva essere un tempo nuovo e splendente, doveva aver significato qualcosa

per qualcuno, anche se per poco. Perciò raccoglie tutto nel suo furgone pazzesco

e lo porta nel laboratorio, e lo lascia decomporre finché non gli viene in mente

qualcosa di nuovo da farci. Una volta mi ha tatto vedere un libro d'arte del

ventesimo secolo che gli piaceva, e c'era la foto di una scultura automatica

chiamata “Gli uccelli morti volano di nuovo”, una cosa che faceva girare in tondo

dei veri uccelli morti su un filo, e Rubin sorrideva annuendo, e io capii che lui

vedeva in quell'artista una specie di antenato spirituale. Ma cosa poteva farsene

Rubin dei miei poster incorniciati, del mio divanetto messicano della Baia, e del

mio letto in schiuma dell'Ikea? “Be'” pensai bevendo un primo sorso ghiacciato,

“riuscirebbe a inventare qualcosa; è per questo che lui è un artista famoso e io

no.”

Andai ad appoggiare la fronte al vetro della finestra, freddo come il bicchiere

che tenevo in mano. “È ora di andare” mi dissi. “Stai mostrando i classici sintomi

dell'ansia da “single” urbano. Ci sono dei rimedi. Bevi, esci.”

Non riuscii a raggiungere uno stato d'animo allegro, quella sera. Né diedi

prova di buon senso da persona adulta rinunciandoci, tornando a casa,

guardando qualche vecchio film e addormentandomi sul divano. La tensione che

si era accumulata in me durante quelle tre settimane mi spingeva come la molla

di un orologio meccanico, e continuai ad avanzare ticchettando per la città

notturna, lubrificandomi a forza di drink il cammino più o meno casuale. Pensai

che era una di quelle sere in cui si scivola in un continuum parallelo, in una città

che assomiglia esattamente a quella in cui si era prima, tranne per il fatto che

non contiene una sola persona amata o conosciuta o con cui si abbia mai parlato.

In sere come questa si può anche entrare nel solito bar e scoprire che tutti i

camerieri sono stati sostituiti; allora ci si rende conto che il vero scopo

dell'uscire era semplicemente vedere una faccia familiare, una cameriera, un

cameriere, chiunque. . È il genere di cosa che rovina la voglia di divertirsi.

Io però tirai avanti, mi feci cinque o sei posti, e finii in un club del West End

che aveva l'aria di non essere più stato sistemato dagli anni ‘90. Cromature che si

staccavano, ologrammi indistinti che facevano venire il mal di testa se si cercava

di capire cosa rappresentavano. Barry doveva avermi parlato di quel posto, ma

non riuscivo a immaginare perché. Mi guardai in giro e sogghignai. Se avevo

intenzione di sentirmi depresso, ero arrivato nel posto giusto. Sì, mi dissi,

mentre mi sedevo su uno sgabello d'angolo al bar, era veramente uno squallore,

il fondo. Era orribile quanto bastava per arrestare la spinta che mi aveva

sostenuto per tutta quella schifosa serata, il che era senza dubbio un bene. Mi

sarei fatto un ultimo bicchiere, ammirato l'ambiente, poi avrei preso un taxi per

tornare a casa.

Fu allora che vidi Lise.

Lei non mi aveva visto, non ancora, e io avevo ancora addosso il cappotto, con

il colletto alzato per il freddo. Era dall'altra parte del bancone, dietro l'angolo,

con un paio di bicchieri vuoti davanti, grandi, del tipo che servono con dentro

ombrellini di Hong Kong o sirene in plastica, e mentre alzava gli occhi per

guardare il ragazzo vicino a lei le vidi il luccichio del wiz negli occhi, e capii che

in quei bicchieri non c'era alcool, perché con la quantità di droga che prendeva

non avrebbe mai potuto permettersi di mescolarli. Il ragazzo però era

completamente partito, sorrideva con aria ebete. Era sul punto di scivolare dallo

sgabello e farfugliava qualcosa, cercando di mettere a fuoco la faccia di Lise,

seduta lì con la giacca di pelle nera allacciata fino al collo e il cranio che

sembrava sul punto di scoppiarle come una lampadina da mille watt. E vedendo

tutto questo, vedendola lì, capii un sacco di cose tutte insieme. Che stava

veramente morendo, per il wiz o per la sua malattia, o per le due cose insieme.

Che lo sapeva benissimo. Che il ragazzo accanto a lei era troppo ubriaco per

essersi accorto dell'esoscheletro, ma non tanto da lasciarsi sfuggire la giacca

costosa e i soldi che aveva per pagarsi da bere. E che quello che vedevo era

esattamente quello che sembrava.

Ma non riuscivo a collegare il tutto, sul momento. Qualcosa dentro di me si

rifiutava di farlo.

E lei sorrideva, o almeno faceva qualcosa che secondo lei era un sorriso,

l'espressione adatta alla situazione, e annuiva alle stupidaggini che biascicava il

ragazzo, e quelle terribili parole che aveva detto mi tornarono alla mente: che le

piaceva guardare. E adesso so una cosa. So che se non fossi capitato là, se non li

avessi visti, sarei stato capace di accettare quello che sarebbe poi successo. Sarei

perfino riuscito a trovare una ragione per rallegrarmi per lei, o una ragione per

credere in quello che è diventata, quello che lei ha costruito a sua immagine, un

programma che finge di essere Lise fino al punto di crederci esso stesso; avrei

potuto credere quello che crede Rubin: che lei aveva superato veramente tutto

questo, la nostra Giovanna d'Arco dell'alta tecnologia, che brucia per

raggiungere l'unione con il dio elettronico a Hollywood, e che nulla le importava

se non l'ora dell'addio. Che aveva gettato via quel povero, triste corpo con un

grido di sollievo, libera dai legami del policarbonio e della odiata carne. Be',

forse è stato così. Sono sicuro che è quello che lei voleva.

Ma a vederla là, con quel ragazzo ubriaco che le teneva la mano, quella mano

che lei non sentiva neppure, capii una volta per tutte che nessuna ragione umana

è mai interamente pura. Anche Lise, con quella sua folle ossessione della fama e

dell'immortalità cibernetica, aveva delle debolezze. Era umana tanto che mi

odiai per averlo capito. Era uscita, quella sera, per dirsi addio. Per trovare

qualcuno abbastanza ubriaco da farlo per lei. Perché, adesso lo sapevo, era vero:

le piaceva guardare.

Credo che mi abbia visto mentre uscivo. Praticamente sono scappato. Se è

così, immagino che mi abbia odiato più che mai, per l'orrore e la pietà che avevo

dipinti in faccia.

Non la rividi mai più.

Un giorno o l'altro chiederò a Rubin perché i Wild Turkey sour siano gli unici

cocktail che sa fare. I sour di Rubin sono talmente forti che sembrano fatti in

serie. Mi porge la tazza di alluminio ammaccata, mentre dal laboratorio intorno a

noi provengono ronzii e ticchettii, l'attività furtiva delle sue più piccole creature.

— Dovresti venire a Francoforte — ripete.

— Perché, Rubin?

— Perché fra non molto lei ti chiamerà. E credo che tu non sia ancora pronto.

Sei ancora sconvolto, e lei avrà la sua voce, e penserà come lei, e tu ne usciresti

pazzo. Vieni con me a Francoforte, così potrai respirare meglio. Non saprà che tu

sei lì. .

— Te l'ho spiegato — dico, ricordandola in quel bar — ho un sacco di lavoro.

Max. .

— Al diavolo Max. L'hai appena fatto diventare ricco. Max può prendersela

comoda. Ti sei arricchito anche tu con i diritti d'autore, e lo capiresti se fossi

tanto sveglio da telefonare alla tua banca per sapere come sta il tuo conto. Puoi

permetterti una vacanza. Lo guardo e mi chiedo quando gli racconterò la storia

di quell'ultima volta che l'ho vista. — Rubin, ti ringrazio molto, ma. . Lui sospira,

beve. — Ma cosa?

— Rubin, se mi chiamerà, sarà LEI?

Mi guarda a lungo. — Solo Dio lo sa. — Batte la tazza sul tavolo. — Voglio dire,

Casey, la tecnologia è quella che è, perciò chi può dirlo?

— E pensi che dovrei venire con te a Francoforte?

Lui si toglie gli occhiali cerchiati e se li pulisce senza grandi risultati con un

lembo della camicia in flanella. — Sì. Hai bisogno di riposo. Forse non adesso, ma

più tardi sì.

— Come sarebbe a dire?

— Quando dovrai fare la revisione della prossima puntata. Cioè quasi

certamente presto, perché le servono molti soldi. Sta usando un sacco di ROM

nel mainframe di qualche azienda, e la sua quota dei “Re” non basta neppure

lontanamente a pagare quello che le hanno fatto. E tu sei il suo revisore di

fiducia, Casey. Chi altro? E io mi limito a fissarlo, mentre si rimette gli occhiali,

come se non riuscissi a muovermi.

— Chi altro?

E in quel momento una delle sue macchine emette uno scatto, un suono solo,

lieve ma nitido, e mi rendo conto che ha ragione.