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Hinterland
(Hinterlands, 1982)
Quando Hiro schiacciò il bottone, io stavo sognando Parigi, strade bagnate e
buie in inverno. Il dolore mi esplose nel cranio, dietro gli occhi, come un muro
blu fluorescente. Balzai fuori dall'amaca urlando. Urlo sempre: ci tengo. Il
feedback mi percorse il cervello. L'interruttore del dolore è un circuito ausiliario
della radio ossea, collegato direttamente ai centri nervosi: proprio quello che ci
vuole per penetrare la nebbia di un surrogato di barbiturici. Mi ci vollero alcuni
secondi per rimettere a posto il tutto, iceberg di ricordi che incombevano nella
nebbia: chi ero, dov'ero, perché ero là, chi mi stava svegliando.
Sentii la voce gracchiante di Hiro attraverso l'innesto a conduzione ossea. —
Accidenti, Toby, lo sai come mi riduci gli orecchi quando urli in quella maniera?
— E tu sai quanto me ne frega, dottor Nagashima? Non mi frega un. .
— Non c'è tempo per le dichiarazioni d'amore, ragazzo. Abbiamo un lavoro da
fare. Ma cosa sono questi picchi da 50 millivolt che hai nelle onde cerebrali, eh?
Hai mescolato qualcos'altro ai sedativi per renderli più frizzanti?
— È il tuo E.E.G. che non funziona, Hiro. Sei matto. Io voglio solo dormire. . —
Mi lasciai cadere sull'amaca e cercai di rimboccarmi addosso il sonno, ma la sua
voce c'era ancora.
— Spiacente, amico, ma oggi devi lavorare. È tornata una nave, un'ora fa. La
squadra esterna è al lavoro per tagliare i motori e farla passare dal portello.
— Chi è?
— Leni Hoffmannstahl, chemiofisica, cittadina della Repubblica Federale
Tedesca. Aspettò che smettessi di grugnire. — È confermato che si tratta di un
relitto umano.
Quassù abbiamo sviluppato un gergo molto simpatico. Intendeva dire che si
trattava di una nave a telemetria medica attiva, contenente numero uno corpi
caldi, stato psicologico da definire. Chiusi gli occhi e rimasi a dondolarmi nel
buio.
— A quanto pare sei il suo surrogato, Toby. Il profilo è in sincronia con quello
di Taylor, ma lui è in ferie.
— Sapevo tutto delle “ferie” di Taylor. Era nel tubo agricolo pieno di
amitriptilina a fare esercizi di aerobica per riprendersi dall'ultimo attacco di
depressione. È uno dei rischi del mestiere di surrogato. Taylor ed io non
andiamo molto d'accordo. È quello che succede di solito, quando due hanno
profili psicosessuali troppo simili.
— Ehi, Toby, dove te la procuri tutta quella roba? — La domanda era rituale.
— Da Charmain?
— Da tua madre, Hiro. — Lo sa benissimo anche lui che è Charmain.
— Grazie, Toby. Raggiungimi all'ascensore per il Paradiso fra cinque minuti,
altrimenti mando giù qualche infermiere russo ad aiutarti. Infermieri maschi.
Io rimasi lì a dondolare sull'amaca a pensare alla “Collocazione di Toby
Halpert nell'Universo”. Non essendo egocentrico, misi il sole in mezzo, il lume, la
sfera del giorno. Attorno ci feci roteare minuscoli pianeti, il nostro accogliente
sistema solare. Ma in un punto fisso a circa un ottavo di strada verso l'orbita di
Marte, che per me era il qui sospesi un grosso cilindro in lega, come un modello
in scala un quarto di Tsiolkovskij 1, il Paradiso dei Lavoratori a L-5. Tsiolkovskij
1 è in posizione stazionaria nel punto di equilibrio fra la gravità terrestre e
quella lunare, ma c'è bisogno di una vela solare per tenerci fermi qui: 20
tonnellate di alluminio intessute a forma di esagono, dieci chilometri da un lato
all'altro. La vela ci ha trasportato fuori dall'orbita terrestre, e adesso è la nostra
ancora. La usiamo per bordeggiare la corrente fotonica, sospesi vicino alla cosa
(il punto, la singolarità) che noi chiamiamo l'Autostrada. I francesi la chiamano
“le métro”, e i russi il fiume, ma “metropolitana” non dà l'idea della distanza, e
“fiume”, per gli americani, non dà la stessa sensazione di solitudine. Si potrebbe
definirla con le Coordinate dell'Anomalia di Tovyevskij, se proprio si vuole
metterci dentro anche Olga. Olga Tovyevskij, Nostra Signora della Singolarità,
Santa Patrona dell'Autostrada. Hiro non si fidava di lasciarmi alzare da solo. Un
momento prima dell'arrivo degli inservienti russi accese le lampade del mio
cubicolo mediante un comando a distanza, e le fece lampeggiare per qualche
secondo prima di vedere illuminati i ritratti di Santa Olga che Charmain aveva
attaccato alle paratie con del nastro adesivo. Dozzine di ritratti, ritagliati da
giornali e riviste in carta patinata. Nostra Signora dell'Autostrada.
Il tenente colonnello Olga Tovyevskij, la donna più giovane del suo grado fra il
personale spaziale sovietico, era in viaggio per Marte, sola, su una Alyut 6
modificata. Le modifiche servivano a renderla in grado di trasportare un nuovo
depuratore d'aria, per metterlo alla prova nel laboratorio marziano orbitale
sovietico con quattro uomini d'equipaggio. Avrebbero potuto benissimo guidare
l'Alyut con telecomando, da Tsiolkovskij, ma Olga voleva avere al suo attivo più
ore di volo. Tuttavia, per tenerla occupata, le avevano affidato una serie di
esperimenti con dei segnali radio sulla frequenza dell'idrogeno, la parte
conclusiva di un programma di scambi scientifici non segreti sovietico-
australiani. Olga sapeva che la sua funzione nell'esperimento poteva essere
svolta anche da un normalissimo timer da cucina. Ma era un ufficiale diligente, e
schiacciava i bottoni esattamente agli intervalli giusti. Con i capelli castani
pettinati all'indietro e trattenuti da una reticella, doveva sembrare il ritratto
idealizzato della Lavoratrice dello Spazio, senza dubbio il cosmonauta più
fotogenico dei due sessi. Aveva controllato nuovamente il cronometro dell'Alyut,
posando le dita sui pulsanti che avrebbero lanciato il primo segnale. Il colonnello
Tovyevskij non poteva sapere che si stava avvicinando al punto dello spazio in
seguito conosciuto come l'Autostrada. Mentre schiacciava la sequenza di sei
pulsanti, l'Alyut attraversò gli ultimi chilometri ed emise il segnale,
un'esplosione prolungata di radioenergia a 1420 megahertz, la frequenza di
trasmissione dell'atomo di idrogeno. Il radiotelescopio di Tsiolkovskij la stava
seguendo, e ritrasmise il segnale a una serie di satelliti di comunicazione che lo
deviarono a due stazioni di ascolto negli Urali e nel Nuovo Galles del Sud. Per 3,8
secondi l'immagine radio dell'Alyut fu oscurata dalla fosforescenza residua del
segnale.
Quando la fosforescenza svanì dagli schermi dei monitor terrestri, l'Alyut era
sparita.
Negli Urali, un tecnico georgiano di mezza età aveva troncato con un morso il
bocchino della sua pipa di schiuma preferita. Nel Nuovo Galles del Sud un
giovane fisico aveva preso a pugni il monitor come un giocatore di flipper
infuriato per un tilt.
L'ascensore che mi aspettava per portarmi in Paradiso sembrava la parodia
hollywoodiana di un sarcofago in stile Bauhaus. Stretto, verticale, con un
coperchio di resina acrilica trasparente. Più indietro c'erano file di quadri-
comando che si stendevano fino a un orizzonte puntiforme. La solita folla di
tecnici coi loro costumi assurdi di carta gialla, tutti indaffarati. Individuai Hiro in
jeans blu, la camicia da cowboy con i bottoni di madreperla aperta sopra una
maglietta sbiadita dell'U.C.L.A. Era concentrato sui numeri che scorrevano su
uno schermo e non si accorse di me. Non se n'era accorto nessuno.
Così rimasi a guardare il soffitto, cioè la parte inferiore del pavimento del
Paradiso. Non sembrava gran che. Il nostro cilindro consiste in realtà di due
cilindri, uno contenuto nell'altro. Quaggiù, in quello esterno (il nostro “giù” è
determinato dalla rotazione assiale) ci sono gli aspetti più pratici della nostra
impresa: dormitori, refettori, la camera di decompressione dove facciamo
entrare le navi che ritornano, la sala comunicazioni. . E i Reparti, che sto bene
attento a evitare.
Il Paradiso è il cilindro interno: l'improbabile cuore verde di questo posto, il
sogno disneyano del ritorno, come un orecchio avido di un'economia globale
affamata di informazioni. Un flusso costante di dati che pulsa in direzione della
Terra, una marea di voci, sussurri, segni di traffico transgalattico. Una volta mi
capitava di irrigidirmi nella mia amaca a sentire la pressione di tutti quei dati,
immaginando di sentirli scivolare lungo i cavi dietro la paratia, cavi come
muscoli gonfi trattenuti da cinghie, pronti a contrarsi, a schiacciarmi. Poi
Charmain è venuta a stare con me, e dopo averla messa al corrente della mia
paura ha fatto un incantesimo e ha attaccato le sue icone di Santa Olga. E la
pressione si è allontanata, è scomparsa.
— Ti colleghiamo con un traduttore, Toby. Forse avrai bisogno del tedesco. —
La sua voce mi graffiava il cervello, una scarica elettrostatica modulata. —
Hillary. .
— Pronta, dottor Nagashima — disse una voce tipo B.B.C., limpida come
cristallo. — Conosci il francese, Toby? La Hoffmannsthal parla francese e inglese.
— Tu non rompermi i coglioni, Hillary. Parla solo se sei interrogata, chiaro? —
Il silenzio all'altro capo della linea parve aggiungersi all'incessante sfrigolio di
disturbi radio. Hiro mi lanciò un'occhiataccia dall'altra parte della sala. Io sorrisi.
Stava cominciando: l'ebbrezza, il flusso di adrenalina. Lo avvertivo mentre
svanivano gli effetti del barbiturico. Un ragazzo, con la faccia bionda e liscia da
californiano, mi aiutò a infilare la tuta. La tuta puzzava. Era vecchia ma rimessa a
nuovo, accuratamente consunta, impregnata di sudore sintetico e feromoni.
Entrambe le maniche erano ricoperte dai polsi alle spalle di etichette, quasi tutte
di grosse compagnie, sponsor sussidiari di un'immaginaria spedizione
sull'Autostrada, con il nome dello sponsor principale cucito molto più in grande
sulle spalle: la ditta che aveva mandato “halpert, toby” al suo incontro con le
stelle. Per lo meno c'era il mio nome, ricamato in maiuscole di nylon scarlatto
appena sopra il cuore.
Il ragazzo con la faccia da californiano aveva quel tipo di bellezza fatta in serie
che per me è caratteristica dei membri più giovani della CIA, ma il nastro con il
nome diceva “nevsky”, e lo ripeteva in cirillico. K.G.B., dunque. Non era uno
“tsiolnik”; non aveva i gesti dinoccolati tipici di chi ha passato vent'anni in un
ambiente L-5. Il ragazzo era moscovita puro, un gentile controllore che
conosceva come minimo otto modi per uccidere con un giornale arrotolato.
Cominciammo il rituale delle droghe. Lui infilò la microsiringa contenente uno
dei nuovi euforoallucinogeni nella tasca del polsino sinistro, fece un passo
indietro e cancellò la voce sull'inventario. Aveva sul taccuino un disegno
schematico di una tuta che sembrava la sagoma di un tiro al bersaglio. Prese una
fiala con cinque grammi di oppio dalla cassetta che portava incatenata alla vita e
raggiunse la tasca corrispondente. Crocetta sul foglio. Quattordici tasche. Per
ultima la cocaina. Hiro arrivò proprio mentre il russo stava finendo. — Forse ha
dei dati importanti, Toby; è una chemiofisica, ricorda. — Era strano ascoltarlo
con gli orecchi e non come una vibrazione dell'innesto.
— Lassù è importante tutto, Hiro.
— Credi che non lo sappia? — La sentiva anche lui, quella vibrazione speciale.
I nostri occhi non sembrano incontrarsi mai. Prima che l'imbarazzo diventasse
eccessivo, lui si voltò e fece un segno con il pollice alzato a uno dei buffoni gialli.
Due di loro mi aiutarono ad entrare nella bara stile Bauhaus, e fecero un passo
indietro mentre il coperchio si chiudeva sibilando come una gigantesca visiera.
Iniziai la mia ascesa in Paradiso per accogliere a casa una straniera di nome Leni
Hofmannsthal. Un viaggio breve, ma mi sembrò eterno.
Olga, che era stata la nostra prima autostoppista, la prima a sollevare
idealmente il pollice per farsi trasportare sulla lunghezza d'onda dell'idrogeno,
era tornata due anni dopo. A Tyuratam, nel Kazakistan, in una grigia mattina
d'inverno, avevano registrato il suo ritorno su 18 centimetri di nastro
magnetico. Se un uomo religioso ed esperto di tecnologia cinematografica avesse
osservato il punto dello spazio dove l'Alyut era svanita due anni prima, gli
sarebbe sembrato che Dio avesse infilato dei fotogrammi della nave di Olga nelle
sequenze che mostravano lo spazio vuoto. La nave era ricomparsa di colpo nel
nostro spazio-tempo come un effetto speciale di serie B. Se fosse arrivata solo
una settimana dopo non l'avrebbero mai raggiunta in tempo: la Terra avrebbe
proseguito lungo la sua orbita, lasciando Olga a precipitare verso il Sole. A 53 ore
dal suo ritorno un volontario di nome Kurtz, con addosso una tuta da lavoro
corazzata, aveva varcato il portello dell'Alyut. Era uno specialista tedesco
orientale in medicina spaziale, e le sigarette americane erano il suo vizio
segreto; aveva una gran voglia di fumarne una mentre superava la camera di
decompressione, strisciava accanto a una massa rettangolare di apparecchiature
per depurare l'aria e accendeva con il mento le luci del casco. L'atmosfera
dell'Alyut anche dopo due anni sembrava respirabile. Nel doppio fascio di luce
del grosso casco, aveva visto globuli di sangue e vomito che orbitavano
lentamente e si disperdevano dietro di lui mentre strisciava con la tuta
ingombrante lungo il passaggio che portava al modulo di comando. Poi l'aveva
trovata.
Galleggiava sopra il quadro di navigazione, nuda, raggomitolata in una rigida
posizione fetale. Aveva gli occhi aperti, fissi su qualcosa che Kurtz non avrebbe
mai visto. Teneva le mani insanguinate strette in pugni duri come pietra, e i
capelli castani, adesso sciolti, le ondeggiavano attorno alla faccia come alghe.
Molto lentamente, e con molta cautela, Kurtz era passato accanto alle tastiere
bianche del quadro di comando e aveva agganciato la tuta al quadro di
navigazione. Pensò che lei doveva avere cercato di fracassare i sistemi di
comunicazione a mani nude. Kurtz aveva attivato il manipolatore destro della
tuta, che si era dischiuso automaticamente come una morsa a forma di fiore.
Aveva allungato la mano avvolta dal guanto chirurgico grigio pressurizzato.
Poi, il più delicatamente possibile, le aveva aperto le dita della mano sinistra.
Niente.
Ma quando aveva aperto le dita della destra, qualcosa ne era uscito roteando
lentamente, a pochi centimetri dal quarzo sintetico della visiera. Sembrava una
conchiglia.
Olga venne riportata a casa, ma i suoi occhi azzurri non tornarono mai in vita
Ci provarono, naturalmente, ma più ci provavano e più lei si spegneva. Nella loro
ansia di sapere l'avevano assottigliata sempre più, finché dopo quel martirio
intere biblioteche contenevano frammenti di lei, file di preziose reliquie. Nessun
santo era mai stato sminuzzato così finemente; soltanto nei laboratori di
Plesetsk lei era presente sotto forma di due milioni di campioni di tessuto,
archiviati e numerati nei sotterranei a prova di bomba del complesso biologico.
Con la conchiglia avevano avuto miglior fortuna. L'esobiologia si trovò
d'improvviso a poggiare su basi solidissime: un dato biologico di un grammo e
sette decimi, altamente organizzato, decisamente extraterrestre. La conchiglia di
Olga generò un'intera ramificazione della scienza dedicata esclusivamente allo
studio della conchiglia di Olga.
Le scoperte iniziali sulla conchiglia resero chiare due cose: che non era il
prodotto della biosfera terrestre, e dal momento che non c'erano altre biosfere
nel sistema solare, doveva provenire da un'altra stella. Olga aveva visitato il suo
luogo di origine, oppure era entrata in contatto con qualcosa che era, o era stata
un tempo, capace di compiere quel viaggio.
Mandarono un certo maggiore Grosz verso le Coordinate di Tovyevskij su una
Alyut 9 dotata di equipaggiamento speciale. Un'altra nave lo seguiva. Era
arrivato all'ultimo dei 20 segnali all'idrogeno, quando la nave svanì.
Registrarono la sua scomparsa e attesero. Tornò 234 giorni dopo. Nel frattempo
avevano scandagliato la zona senza soste, alla disperata ricerca di qualcosa che
potesse indicare l'anomalia, il punto attorno a cui potesse crescere l'intera
teoria. Non c'era niente: solo la nave di Grosz che roteava senza controllo. Si era
suicidato prima che potessero raggiungerlo: la seconda vittima dell'Autostrada.
Quando rimorchiarono l'Alyut a Tsiolkovskij, scoprirono che le sofisticate
apparecchiature di registrazione non contenevano nulla. Era tutto in perfetto
stato, ma non aveva funzionato niente. Grosz venne ibernato e messo sulla prima
navetta per Plesetsk, dove i bulldozer stavano già scavando un nuovo
sotterraneo. Tre anni dopo, la mattina dopo la perdita del settimo cosmonauta,
un telefono suonò a Mosca. L'uomo si presentò. Era il direttore della Central
Intelligence Agency degli Stati Uniti d'America. Disse di essere autorizzato a fare
un'offerta. A certe specifiche condizioni l'Unione Sovietica avrebbe potuto
avvalersi delle menti migliori della psichiatria occidentale. Aggiunse che,
secondo quanto risultava alla sua agenzia, un aiuto del genere sarebbe stato
molto gradito. Parlava russo benissimo.
I disturbi della radio ossea erano una tempesta subliminale. L'ascensore si
infilò nello stretto condotto che attraversava il pavimento del Paradiso. Contai
luci blu a intervalli di due metri. Dopo la quinta luce, buio e quiete.
Nascosto nel quadro di comando vuoto della falsa barca, aspettai
nell'ascensore, come in un passaggio segreto dietro la libreria in una storia
dell'orrore per bambini. La barca era solo un arnese da scena, un oggetto
teatrale, come la casetta bavarese incollata alle alpi di gesso nel parco dei
divertimenti: un tocco simpatico, ma non strettamente necessario. Se i reduci ci
accettano, non si curano di noi; tutte le nostre coperture non fanno molta
differenza.
— Tutto a posto — disse Hiro. — Nessun cliente nei dintorni. — Io mi
massaggiai soprappensiero la cicatrice dietro l'orecchio sinistro, dove avevano
innestato la radio ossea. Il quadro comandi falso si aprì lasciando entrare la luce
grigia dell'alba del Paradiso. L'interno della barca era familiare ed estraneo nello
stesso tempo, come ritornare a casa dopo esserne stati lontani una settimana.
Una di quelle nuove edere brasiliane si era infilata nell'oblò di sinistra, dopo la
mia ultima visita, ma non mi sembrava fosse cambiato altro. C'era stata battaglia
su quelle viti, nelle riunioni della commissione biologica. Gli ecologisti americani
protestavano per il rischio di penuria di azoto. I russi sono molto suscettibili in
fatto di bioarchitettura, fin da quando hanno dovuto chiedere aiuto agli
americani per il loro programma biotico su Tsiolkovskij 1. Un brutto problema
con il grano idroponico che marciva; neanche con tutta la loro ingegneria super-
raffinata riuscivano a mettere insieme un ecosistema funzionale. E il fatto che il
loro fallimento iniziale ha prodotto come risultato la nostra presenza qui li irrita
ancora di più; perciò insistono per l'edera brasiliana, o qualsiasi cosa offra loro
occasione per litigare. Ma mi piacciono queste edere: le foglie sono a forma di
cuore, e a strofinarle fra le dita si sente odore di cannella.
Andai vicino all'oblò e osservai la luce riflessa che penetrava sempre più
intensa nel Paradiso. Il Paradiso segue il tempo di Greenwich; grandi specchi di
Mylar ruotano da qualche parte, nel vuoto, in orario per l'alba a Greenwich. Fra
gli alberi cominciò il canto registrato degli uccelli. Gli uccelli hanno la vita dura
in assenza di vera gravità. Non possiamo averne di veri, perché impazziscono a
cercare di volare con la forza centrifuga.
La prima volta che lo si vede, il Paradiso tiene fede al suo nome:
lussureggiante, fresco, luminoso, l'erba alta punteggiata di fiori selvatici. Il che
dura finché non si sa che la maggior parte degli alberi sono artificiali. O quanto
sia difficile mantenere un equilibrio ottimale fra le alghe verde-azzurro e le
diatomee negli stagni. Charmain dice sempre che si aspetta di vedere Bambi
trotterellare fuori dal bosco e Hiro afferma di sapere esattamente quanti
ingegneri della Walt Disney hanno giurato di mantenere il segreto in base alla
Legge perla Sicurezza Nazionale.
— Riceviamo dei frammenti dalla Hoffmannstahl — disse Hiro. Era quasi
come se parlasse a se stesso; stava formandosi la gestalt manipolatore-
surrogato, e ben presto avremmo cessato di essere consapevoli l'uno dell'altro.
L'effetto dell'adrenalina stava svanendo. — Niente di molto coerente: “Schöne
Maschine” o qualcosa del genere. . “Bella macchina”. . Hillary dice che sembra
molto calma, ma è completamente partita. — Non parlarmene. Non voglio
previsioni, d'accordo? Entriamo alla cieca. — Aprii il boccaporto e respirai una
boccata di aria del Paradiso; era come vino bianco fresco. — Dov'è Charmain?
Lui sospirò, un fruscio di interferenze. — Charmain dovrebbe essere nella
Radura Cinque a occuparsi di un cileno che è arrivato tre giorni fa. Ma non c'è.
Ha sentito che stavi arrivando. Ti sta aspettando vicino allo stagno delle carpe.
Stronza — aggiunse.
Charmain stava gettando sassolini a una carpa cinese. Aveva un mazzetto di
fiori bianchi infilati dietro un orecchio e una Malboro spiegazzata dietro l'altro.
Era scalza, i piedi sporchi di fango, e aveva tagliato i calzoni della tuta a metà
coscia. I capelli neri erano raccolti a coda di cavallo.
Ci eravamo incontrati per la prima volta a una festa in una delle officine di
saldatura, fra voci ubriache che rimbombavano nel vuoto della sfera in lega e
vodka fatta in casa a zero-g. Qualcuno aveva portato una bottiglia d'acqua per
allungare il liquore, ne aveva strizzato fuori un paio di manciate e ne aveva
formato abilmente una palla floscia e roteante tenuta insieme dalla tensione
superficiale, che ci eravamo passati in giro. Ma io sono piuttosto goffo a zero-g, e
quando venne il mio turno ci infilai dentro una mano. Mi scossi un migliaio di
palline argentee dai capelli, agitando le mani e roteando su me stesso, e la donna
vicino a me rideva facendo lente capriole: una ragazza alta e magra, con i capelli
neri. Indossava quei pantaloni larghi, allacciati con cordoni, che i turisti si
portano a casa da Tsiolkovskij, e una maglietta NASA di tre misure troppo
grande. Un minuto dopo, mi raccontava del volo a vela con i ragazzi “tsiolniki”, e
di come erano orgogliosi della marijuana leggera che coltivavano in uno dei
cilindri per il grano. Non mi resi conto che era anche lei un surrogato, finché
Hiro si inserì per dirci che la festa era finita. Era venuta a vivere con me una
settimana dopo.
— Un minuto, d'accordo? — Hiro digrignò i denti, un suono orribile. — Uno
solo, non di più. — Poi uscì dal circuito; forse non stava neppure ascoltando.
— Come vanno le cose nella radura Cinque? — Mi accucciai vicino a lei e
trovai dei sassi per me.
— Tutto abbastanza tranquillo. Ho dovuto lasciarlo per un po', gli ho dato
degli ipnotici. Il mio traduttore mi ha detto che stavi salendo.
— Charmain ha un accento texano che fa sembrare qualsiasi parola una
volgarità.
— Credevo che parlassi spagnolo. Il tipo è cileno, no? — Buttai uno dei miei
sassolini nello stagno.
— Io parlo messicano. I duri della sezione cultura hanno detto che non gli
sarebbe piaciuto il mio accento. Meglio così, comunque. Non riesco a seguirlo
quando parla in fretta. — Uno dei suoi sassolini seguì il mio, creando anelli
nell'acqua. — Cioè sempre. — Una carpa si avvicinò per vedere se il sasso era
buono da mangiare. — Non ce la farà. — Non mi stava guardando. La voce era
perfettamente inespressiva. — Il piccolo Jorge decisamente non ce la farà.
Scelsi il sasso più piatto che avevo e cercai di farlo rimbalzare sulla superficie,
ma affondò. Meno sapevo di Jorge il cileno, meglio era. Sapevo che era vivo, che
faceva parte del dieci per cento. Quelli che arrivano morti sono il venti per cento.
Suicidio. Il 70 per cento dei relitti umani sono candidati ai Reparti: sono quelli
che se la fanno addosso, che gorgogliano suoni senza senso, quelli partiti del
tutto. Charmain ed io siamo surrogati per il rimanente dieci per cento.
Se i primi a tornare avessero portato con sé solo conchiglie, dubito che ci
sarebbe un Paradiso. Il Paradiso era stato costruito dopo che un francese era
tornato con un anello di 12 centimetri di acciaio registrato magneticamente
stretto nella mano fredda, macabra parodia del bambino fortunato che vince un
giro gratis sulla giostra. Forse non scopriremo mai dove se lo sia procurato, ma
quell'anello era la stele di Rosetta del cancro. Perciò adesso è l'epoca del culto
delle perline, per la razza umana. Possiamo raccogliere cose, là fuori, che non
troveremmo mai neanche in mille anni di ricerche. Charmain dice che siamo
come quei poveri selvaggi nella loro isola che passavano il tempo a costruire
piste di atterraggio, nella speranza di far tornare i grandi uccelli d'argento.
Charmain dice che il contatto con una civiltà “superiore” è qualcosa che non
augurerebbe neppure al suo peggior nemico.
— Ti sei mai chiesto come hanno immaginato di farci questo bel pacco, Toby?
— Guardava con gli occhi socchiusi verso est, lungo il nostro paese cilindrico
verde e privo di orizzonte. — Dovevano esserci tutti i pezzi grossi, l'élite dei
frugacervelli, seduti attorno a un lungo tavolo di palissandro finto fornito dal
Pentagono. Un block notes intonso per ciascuno e una matita nuova di zecca,
appuntita appositamente per l'occasione. C'erano tutti: freudiani, junghiani,
adleriani, quegli stronzi di seguaci di Skinner, eccetera. E ognuno di quei
bastardi ha capito in cuor suo che era il momento di giocare le carte migliori.
Come professione, non solo come rappresentanti di una certa fazione. La
psichiatria occidentale incarnata. E non succede niente! La gente torna morta
dall'Autostrada, oppure biascicando e canticchiando canzoncine da bambini.
Quelli vivi durano circa tre giorni, non dicono un accidente, poi si sparano o
diventano catatonici. — Prese dalla cintura una piccola torcia elettrica e ne
spezzò il guscio di plastica, estraendo il riflettore parabolico. — Il Cremlino urla.
La CIA dà i numeri. E cosa ancora più grave, le multinazionali che dovrebbero
sostenere lo spettacolo cominciano a ripensarci. “Astronauti morti? Nessuna
informazione? Niente soldi, amici.” Perciò stanno diventando nervosi, tutti
questi supercervelloni, finché qualche svitato, qualche buffone, magari di
Berkeley, dice — e la sua pronuncia strascicata divenne pastosa, come quella di
qualcuno su di giri — “Ehi, sentite, perché non mettiamo questa gente in un
posto davvero carino sul serio, con un sacco di droga veramente O.K. e qualcuno
con cui possa davvero “comunicare”, eh?” — Rise e scosse la testa. Stava usando
il riflettore per accendere la sigaretta, concentrando la luce del sole. Non ci
danno fiammiferi: le fiamme sconvolgono l'equilibrio fra ossigeno e ossido di
carbonio. Un sottile filo di fumo grigio si alzò dal punto focale incandescente.
— Okay — disse Hiro — il minuto è passato. — Guardai l'orologio.
Dovevano esserne passati almeno tre.
— Buona fortuna — disse lei sottovoce, fingendo di essere intenta alla
sigaretta. — Dio ti aiuti.
La promessa del dolore. È lì, ogni volta. Sai cosa succederà, ma non sai quando,
né esattamente come. Cerchi di tenerti stretto a loro, li culli nel buio. Ma se ti
prepari al dolore, non puoi funzionare. C'è una poesia che Hiro cita: “Insegnaci
ad avere e non avere a cuore qualcosa”.
Siamo come mosche intelligenti che vagano in un aeroporto internazionale.
Alcuni di noi riescono a salire su un volo per Londra o per Rio, magari
sopravvivono al viaggio e tornano indietro. “Ehi” dicono le altre mosche “cosa
succede dall'altra parte di quella porta? Cosa sanno loro che noi non sappiamo?”
Ai bordi dell'Autostrada ogni linguaggio umano si disfa fra le mani. . tranne forse
il linguaggio dello sciamano, del cabalista, il linguaggio del mistico intento a
tracciare la mappa delle gerarchie dei demoni, degli angeli, dei santi.
Ma l'Autostrada è governata da regole, e ne abbiamo imparate alcune.
Ci danno qualcosa a cui aggrapparci.
REGOLA NUMERO UNO: Una persona sola a viaggio; niente squadre, niente
coppie.
REGOLA NUMERO DUE: Nessuna intelligenza artificiale. Qualunque cosa ci sia
là fuori non si ferma certo davanti a una macchina furba. Almeno non del tipo
che sappiamo costruire noi.
REGOLA NUMERO TRE: Gli strumenti di registrazione sono una perdita di
tempo; tornano sempre fuori uso.
La vicenda di Santa Olga ha fatto sorgere decine di nuove scuole, eresie
sempre più brillanti ed eleganti, ciascuna con la speranza di aprirsi un varco
nella via segreta. Ad una ad una, cadono. Nel silenzio sussurrante delle notti in
Paradiso, sembra quasi di sentirle andare in frantumi, teorie che si trasformano
in polvere mentre il lavoro di una vita del pool di cervelli di qualche
multinazionale si riduce a una concisa nota storica, e tutto questo nel tempo che
impiega un viaggiatore a mormorare qualche parola nel buio. Mosche in un
aeroporto, che fanno l'autostop. Le mosche sono pregate di non rivolgere troppe
domande. Le mosche sono pregate di non cercare di capire il Grande Piano.
Ripetuti tentativi in questa direzione portano inevitabilmente al lento
inarrestabile sbocciare della paranoia, la mente che proietta immense forme
scure sulle pareti della notte, forme che solidificano, diventano pazzia, religione.
Le mosche furbe si accontentano della teoria della Scatola Nera; la Scatola Nera è
la metafora corrente: l'Autostrada rimane variabile indipendente in ogni
equazione sensata. Non dobbiamo preoccuparci di cosa sia l'Autostrada, o di chi
l'abbia costruita. Concentriamoci invece su quello che mettiamo nella Scatola
Nera, e su quello che ne ricaviamo. Ci sono cose che mandiamo lungo
l'Autostrada (una donna di nome Olga, la sua nave, tante altre che sono seguite),
e cose che tornano indietro (una donna impazzita, una conchiglia, frammenti di
tecnologia aliena). I teorici della Scatola Nera dicono che la nostra prima
preoccupazione è di ottimizzare lo scambio. Noi siamo qui per assicurarci che la
nostra specie abbia il suo tornaconto. E tuttavia, certe cose stanno diventando
sempre più evidenti; una di queste è che non siamo le sole mosche ad aver
trovato la strada dell'aeroporto. Abbiamo raccolto i prodotti di almeno cinque o
sei culture ampiamente divergenti. “Altri selvaggi”, li chiama Charmain. Siamo
come topi nella stiva di un mercantile, che scambiano piccole cianfrusaglie con i
topi di altri porti. E sognano le luci splendenti, la grande città. Limitiamoci al
Dentro e al Fuori. Leni Hofmannstahl: Fuori.
Mettemmo in scena il ritorno a casa di Leni nella Radura Tre, detta anche
Eliseo. Mi acquattai in una macchia di riproduzioni di aceri giovani ed esaminai
la nave. In origine era simile a una libellula senza ali, con l'addome sottile lungo
dieci metri, in cui era alloggiato il motore a reazione. Ora, senza motore,
sembrava una pupa biancastra, gli occhi sporgenti da larva pieni del tradizionale
ammasso di sensori e sonde. Era appoggiata su una collinetta al centro della
radura, progettata appositamente per accogliere vascelli di varie forme. Quelli
nuovi sono più piccoli, come lavatrici da Grand Prix, baccelli minimali senza
pretesa di essere navi da esplorazione. Moduli per relitti umani.
— Non mi piace — disse Hiro. — Questa storia non mi piace. C'è qualcosa che
non va. . — Sembrava che parlasse con se stesso; sembravo Io che parlavo con
me stesso, il che significava che la gestalt manipolatore-surrogato era quasi
operativa. Inserito nel mio ruolo, non sono più l'uomo di punta dell'orecchio
avido del Paradiso, una sonda specializzata collegata via radio con uno
psichiatra ancora più specializzato; quando la gestalt entra in azione, Hiro ed io
ci fondiamo in qualcosa di diverso, qualcosa che non potremo mai ammettere
l'uno con l'altro, non mentre succede. La nostra relazione farebbe venire gli
incubi a un freudiano classico. Sapevo che aveva ragione: questa volta c'era
qualcosa di veramente fuori posto. La radura era più o meno circolare. Doveva
esserlo: si trattava in realtà di un cerchio di 15 metri tagliato nel pavimento del
Paradiso e mascherato da prato alpino. Avevano staccato il motore di Leni,
rimorchiato la nave nel cilindro esterno, abbassato la radura fino alla camera di
decompressione, poi avevano sollevato la nave in Paradiso come una torta su un
grande vassoio coperto d'erba e fiori selvatici. Avevano accecato i sensori
saturandoli di trasmissioni e avevano sigillato oblò e portello. In teoria Paradiso
dovrebbe essere una sorpresa per i nuovi arrivati.
Mi chiesi se Charmain era già tornata da Jorge. Forse gli stava cucinando
qualcosa, uno dei pesci che “peschiamo”, vale a dire che ci vengono liberati fra le
mani dalle gabbie in fondo allo stagno. Immaginai l'odore di pesce fritto, chiusi
gli occhi e immaginai Charmain che guadava l'acqua bassa, goccioline scintillanti
che le scendevano lungo le cosce, una ragazza dalle lunghe gambe in uno stagno
del Paradiso.
— Vai, Toby! Adesso!
Mi sentii rintronare il cranio. L'addestramento e i riflessi gestalt mi avevano
già portato a metà della radura. — Maledizione, maledizione, maledizione. . —
Era il mantra di Hiro, e allora capii che era tutto, TUTTO sbagliato. Hillary la
traduttrice si sentiva in sottofondo, voce B.B.C. stridula come ghiaccio spezzato,
che snocciolava veloce qualcosa a proposito di mappe anatomiche. Hiro doveva
aver usato i comandi a distanza per aprire il portello, ma non aspettò che si
spalancasse da solo. Azionò i sei bulloni esplosivi inseriti nello scafo, e l'intero
meccanismo venne espulso fuori, intatto. Mi mancò per un pelo. Mi ero spostato
istintivamente. Poi mi arrampicai sul fianco liscio della nave, afferrando la
struttura a nido d'ape all'interno del portello; il meccanismo di scoppio si era
portato via anche la scaletta.
E lì mi bloccai, rannicchiato nell'odore di esplosivo al plastico, perché fu allora
che la Paura mi raggiunse per la prima volta. Avevo già sentito altre volte la
Paura, ma solo i margini, la punta più esterna. Adesso era enorme, il vuoto stesso
della notte, un nulla freddo e implacabile. Erano le ultime parole, lo spazio
profondo, ogni lungo addio nella storia della nostra specie. Mi rannicchiai
gemendo. Tremavo, strisciavo, piangevo. Ce la spiegano, ci avvertono cercano di
mostrarcela come un tipo di agorafobia temporanea endemica al nostro lavoro.
Ma noi sappiamo cos'è; i surrogati lo sanno, i manipolatori non possono saperlo.
Nessuna spiegazione si è mai avvicinata alla realtà.
È la Paura , il lungo dito della Grande Notte, il buio che nutre di dannati
biascicanti le bianche e gentili fauci dei Reparti. Olga l'ha conosciuta per prima,
Santa Olga. Ha cercato di nasconderci ad essa, assalendo a mani nude
l'apparecchiatura radio fino a farsele sanguinare, per impedire che la nave
trasmettesse, pregando che la Terra la perdesse, che la lasciasse morire. .
Hiro era frenetico, ma doveva aver capito, e sapeva che cosa fare. Mi colpì con
il bottone del dolore. Forte. Più volte, come con un pungolo per il bestiame. Mi
costrinse a entrare nella nave. Mi mandò avanti attraverso la Paura.
Oltre la Paura, c'era una stanza. Silenzio, e un odore estraneo, l'odore di una
donna.
Il modulo era piccolo, consumato, quasi simile a una casa, la plastica strappata
della cuccetta di accelerazione rappezzata con pezzi di nastro argenteo che si
stavano scollando. Tutto sembrava adattarsi a un'assenza. Lei non c'era. Poi vidi
il fregio assurdo disegnato a biro: simboli indecifrabili, migliaia di piccole figure
oblunghe, distorte, che si intersecavano e sovrapponevano. Macchiato da ditate,
patetico, copriva la maggior parte della paratia di poppa. Hiro era
un'interferenza, che sussurrava, implorava. “Trovala, Toby, subito, ti prego,
Toby, trovala, trovala, trova. .” La trovai nella cabina chirurgica, una piccola
alcova a fianco del corridoio. Sopra di lei la “Schöne Maschine”, il manipolatore
chirurgico, scintillante, le sue braccia sottili e lucide ripiegate in ordine, arti
cromati da granchio, con emostatici, forcipi, bisturi laser. Hillary era isterica, la
sentivo indistinta su un canale lontano, che diceva qualcosa sull'anatomia del
braccio umano, i tendini, le arterie, tassonomia elementare. Hillary urlava. Non
c'era sangue. Il manipolatore è una macchina pulita, capace di lavorare senza
sporcare a zero-g, aspirando il sangue. Era morta un momento prima che Hiro
facesse saltare il portello, il braccio destro allungato sul piano di lavoro di
plastica bianca come un disegno medievale, senza pelle, i muscoli e gli altri
tessuti sistemati simmetricamente, tenuti fermi da spilli da dissezione in acciaio
inossidabile. Era morta dissanguata. Un manipolatore chirurgico è programmato
contro il suicidio, ma può servire anche per sezionare campioni biologici da
conservare.
Lei aveva trovato un sistema per ingannarlo. Ci si riesce quasi sempre con le
macchine, se si ha tempo a disposizione. E lei aveva avuto otto anni.
Era stesa nell'intelaiatura pieghevole, una cosa simile allo scheletro
fossilizzato di una poltrona da dentista. Attraverso di essa potevo vedere la
scritta sbiadita sulla schiena della sua tuta, il marchio di un'industria elettronica
della Germania Ovest. Cercai di dirglielo. Dissi: — Ti prego, sei morta. Perdonaci,
siamo venuti ad aiutarti, Hiro ed io. Capisci? Lui sà, Hiro; è qui nella mia testa. Ha
letto il tuo dossier, il tuo profilo sessuale, i tuoi colori preferiti, conosce le tue
paure infantili, il tuo primo amante, il nome di un insegnante che ti piaceva. E io
ho i feromoni giusti, sono un arsenale ambulante di droghe. Qualcosa qui ti
piacerà di sicuro. E sappiamo mentire, Hiro ed io; siamo dei campioni a dire
bugie. Ti prego. Devi capire. Perfetti estranei, ma Hiro ed io siamo per te
l'estraneo perfetto, Leni.
Era una donna piccola, bionda, i capelli lisci prematuramente spruzzati di
grigio. Le toccai i capelli, una volta, e uscii sulla radura. Mentre ero fermo lì,
l'erba alta rabbrividì, i fiori cominciarono a tremare, ed iniziammo la nostra
discesa, con la nave al centro del suo ascensore rotondo e collinoso. La radura
uscì dal Paradiso, e la luce del sole andò persa fra il bagliore delle grosse
lampade a vapore, che gettavano ombre dure sull'ampio ponte della camera di
decompressione. Figure in tuta rossa che correvano. Un'automobilina rossa
eseguì una curva ad U sulle gomme larghe, per evitarci.
Nevsky, il californiano del K.G.B., aspettava ai piedi della scaletta che avevano
spinto fino alla radura. Non lo vidi finché non fui arrivato in fondo.
— Devo prendere le droghe, signor Halpert.
Mi fermai lì, ondeggiando sbattendo le palpebre per le lacrime. Lui allungò
una mano per sorreggermi. Mi chiesi se sapeva perché era lì nel portello, una
tuta gialla in territorio rosso. Ma probabilmente non gli interessava; sembrava
che non gli interessasse niente, aveva con sé il suo taccuino.
— Devo prenderle, signor Halpert.
Io mi tolsi la tuta, l'arrotolai e gliela porsi. Lui la infilò in una borsa di plastica,
mise la borsa in una valigetta legata al polso sinistro con una catena, e fece
girare la ruota della combinazione.
— Non prenderle tutte insieme, ragazzo — dissi. Poi svenni.
Quella notte, tardi, Charmain portò nella mia cabina una tenebra tutta
speciale: dosi sigillate in alluminio spesso. Era completamente diversa
dall'oscurità della Grande Notte, quel buio senziente e famelico, appostato in
attesa di trascinare i malcapitati nei Reparti, il buio che genera la paura. Era
un'oscurità simile alle ombre che si possono vedere dal sedile posteriore
dell'auto in una notte piovosa quando si ha cinque anni e si sta tranquilli e al
caldo. Charmain è molto più abile di me quando si tratta di fregare i controllori,
quelli come Nevsky.
Non le chiesi perché era tornata dal Paradiso, o cosa era successo a Jorge. Lei
non mi chiese niente di Leni.
Hiro era sparito, non si era più fatto sentire. L'avevo visto quando avevamo
fatto rapporto, quel pomeriggio. Come al solito, i nostri occhi non si erano
incontrati. Non aveva importanza. Sapevo che sarebbe tornato. Era stato un
episodio come un altro, in effetti. Un brutto giorno in Paradiso, ma non è mai
facile. È dura sentire la Paura per la prima volta, ma avevo sempre saputo che
era lì, in attesa. Avevano parlato dei grafici di Leni, dei suoi schizzi a biro di
catene molecolari che si spostano a comando. Molecole che possono funzionare
come interruttori, elementi logici, perfino una specie di circuito, costruito a
strati in una singola molecola molto grande, un computer piccolissimo.
Probabilmente non sapremo mai cosa ha incontrato là fuori; probabilmente non
conosceremo mai i particolari della transazione. Potrebbe essere peggio
scoprirlo. Non siamo l'unica tribù a vivere nell'hinterland, a frugare fra i rifiuti.
Maledetta Leni, maledetto quel francese, maledetti tutti quelli che riportano
indietro cure per il cancro, conchiglie, cose senza nome. . che ci tengono qui ad
aspettare, che riempiono i Reparti, che portano la Paura. Mi aggrappai a quel
buio caldo e vicino, e al lento respiro di Charmain, al ritmo del mare. Sei
abbastanza in alto, quassù; sentirai il mare giù in fondo, oltre i disturbi della
radio ossea. È qualcosa che portiamo con noi, per quanto lontani da casa.
Charmain si mosse vicino me, mormorò il nome di uno straniero, il nome di
qualche viaggiatore passato da tempo nei Reparti. Detiene un record; ha tenuto
vivo un uomo per due settimane finché non si è cavato gli occhi con i pollici. Lei
ha urlato per tutta la discesa, si è spezzata le unghie sul coperchio di plastica
dell'ascensore. Poi le hanno dato dei sedativi.
Ma entrambi abbiamo la spinta, quel particolare bisogno, quella folle dinamica
che ci costringe a tornare in Paradiso. Entrambi ce la siamo procurata nello
stesso modo, aspettando per settimane nelle nostre piccole navi che l'Autostrada
ci prendesse. E una volta lanciato l'ultimo segnale, i rimorchiatori ci hanno
portati qui. Qualcuno non viene preso, e nessuno sa perché. E non si ha mai una
seconda occasione. Dicono che è troppo costoso, ma quello che in realtà vogliono
dire, mentre ti guardano le bende sui polsi, è che sei troppo prezioso, troppo
utile per loro come potenziale surrogato. Non preoccuparti per il tentativo di
suicidio, ti diranno: succede sempre. È perfettamente comprensibile: la reazione
per essere stati respinti. Ma io volevo andare, lo desideravo tanto. Anche
Charmain. Lei ha provato con le pillole. Ma loro hanno lavorato su di noi, ci
hanno cambiato un po', hanno raddrizzato le nostre pulsioni ci hanno innestato
la radio ossea e accoppiato con i manipolatori. Olga deve averlo saputo, deve
aver capito tutto, in qualche maniera, e ha cercato di impedirci di trovare la
strada per tornare dove lei era stata. Sapeva che se l'avessimo trovata avremmo
dovuto andare. Anche adesso, sapendo ciò che so, vorrei andare. Non andrò mai.
Ma possiamo dondolarci qui, in questo buio che si innalza sopra di noi, con la
mano di Charmain nella mano. L'involucro strappato della droga fra le mani. E
Santa Olga ci sorride dalle pareti; sappiamo che è lì, tutte quelle stampe della
stessa foto, strappate e appiccicate ai muri della notte, il suo bianco sorriso, per
sempre.