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Il continuum di Gernsback

(The Gernsback Continuum, 1981)

Per fortuna gli effetti stanno svanendo, la faccenda si sta rivelando un

episodio temporaneo. Quando ancora mi capita di vedere qualcosa, è ai margini

del campo visivo: frammenti di assurde macchine cromate, appena intraviste. Ho

visto un'ala volante sopra San Francisco, la settimana scorsa, ma era quasi

trasparente. E le auto con le pinne di squalo si sono fatte più rare, le autostrade

evitano discretamente di espandersi in mostri scintillanti a ottanta corsie, come

quello in cui sono stato costretto a guidare la settimana scorsa con la mia Toyota

a nolo. E so che niente di tutto ciò mi seguirà fino a New York, il mio campo

visivo si sta restringendo a una sola lunghezza d'onda probabilistica. Ho lavorato

duro per ottenere questo risultato. La televisione mi è stata di grande aiuto.

Credo che sia cominciato a Londra, in quella taverna greca fasulla in Battersea

Park Road, dove abbiamo pranzato a spese della ditta di Cohen. Tutta roba da

tavola calda, e ci hanno messo mezz'ora per trovare un secchiello del ghiaccio

per il vino. Cohen lavora perla Barris-Watford, che pubblica grandi libri illustrati

molto chic sull'arte “commerciale”: la storia delle insegne al neon, i flipper, i

giocattoli a molla del Giappone occupato. Ero andato in Inghilterra per una serie

di fotografie pubblicitarie; ragazze californiane con le gambe abbronzate e

scarpe da ginnastica dai vivaci colori fluorescenti che saltellavano in mio onore

lungo le scale mobili di Saint John's Wood e sui marciapiedi di Tooting Bec. Un

giovane funzionario, magro e ambizioso, aveva deciso che i misteri della

metropolitana di Londra sarebbero serviti a vendere scarpe di nylon con la suola

da montagna. Loro decidono, io fotografo. E Cohen, che conoscevo vagamente

dai tempi di New York, mi aveva invitato a pranzo il giorno prima della partenza

da Heathrow. Era accompagnato da una signorina vestita molto alla moda, di

nome Dialta Downes, una tipa praticamente senza mento, nota studiosa di storia

dell'arte pop. Se ci ripenso la vedo camminare a fianco di Cohen sotto un'insegna

lampeggiante al neon, con scritto DIREZIONE: FOLLIA in grosse maiuscole

“senza terminazioni”. Cohen ci presentò e spiegò che Dialta era l'artefice

dell'ultimo progetto della Barris-Watford, una storia illustrata di quello che lei

chiamava “Stile Modernista Aerodinamico Americano”. Cohen lo chiamava

“gotico spaziale”. Il titolo provvisorio era “Futuropolis: La città mai esistita”.

Gli inglesi hanno una tipica ossessione per gli aspetti più barocchi della

cultura pop americana, qualcosa di simile al feticismo dei tedeschi occidentali

verso gli indiani e i cowboy o all'assurda idolatria dei francesi per i vecchi film di

Jerry Lewis. In Dialta Downes questo si manifestava in una mania per una forma

di architettura squisitamente americana, ma di cui gli americani sono

scarsamente consapevoli. All'inizio non ero ben sicuro di cosa stesse parlando,

ma un po' alla volta cominciai a capire. Tornai con la mente ai programmi

televisivi della domenica mattina, negli anni ‘50. Qualche volta, sulla stazione

locale, trasmettevano vecchi cinegiornali, come riempitivo. E mentre si stava

seduti con un panino al burro di arachidi e un bicchiere di latte, una voce

baritonale, hollywoodiana e gracchiante, raccontava che c'era “Una Macchina

Volante nel Vostro Futuro”. E tre ingegneri di Detroit si davano da fare su una

vecchia, gigantesca Nash alata, che si lanciava poi rumorosamente lungo qualche

pista deserta del Michigan. Non la si vedeva mai decollare veramente, ma volava

verso la terra inesistente di Dialta Downes, la vera patria di una generazione di

tecnofili privi di inibizioni. Quello di cui mi stava parlando erano quei pezzi di

architettura “futuristica” degli anni Venti e Trenta che si incontrano ogni giorno

nelle città americane senza accorgersene: le pensiline dei cinema con nervature

che irradiano una misteriosa energia, i negozi con la facciata di alluminio

scanalato, le sedie di tubo cromato che raccolgono la polvere negli androni degli

alberghi di terza categoria. Lei vedeva queste cose come segmenti isolati di un

mondo di sogno abbandonati in un presente indifferente; voleva che li

fotografassi per lei.

Gli anni Trenta avevano visto nascere la prima generazione di progettisti

industriali americani. Fino agli anni 30 tutti i temperamatite sembravano

temperamatite: il classico meccanismo vittoriano, al massimo un'ombra di

decorazione. Dopo l'avvento dei designer, c'erano temperamatite che

sembravano progettati nelle gallerie a vento. Nella maggior parte dei casi il

cambiamento era solo superficiale; sotto il guscio cromato e aerodinamico c'era

sempre il vecchio meccanismo vittoriano. Il che aveva una sua logica, perché i

designer più abili erano usciti dalle file degli scenografi di Broadway. Era tutto

un palcoscenico, una serie di fondali complicati per giocare a vivere nel futuro.

Mentre bevevamo il caffè, Cohen tirò fuori una grossa cartelletta piena di foto.

C'erano le statue alate che facevano la guardia alla diga di Hoover, come

decorazioni di cemento alte dodici metri soffiate da un immaginario uragano.

C'erano una dozzina di foto del Johnson's Wax Building di Frank Lloyd Wright,

affiancate alle copertine della vecchia “Amazing Stories”, dipinte da un tale di

nome Frank R. Paul; probabilmente i dipendenti della Johnson's Wax avevano

avuto l'impressione di entrare in una delle utopie aerografate da rivista

popolare di Paul. L'edificio di Wright sembrava progettato per gente che

indossava tuniche bianche e sandali di perspex. Mi soffermai sul disegno di un

aereo a elica particolarmente maestoso, tutto ali, come un grosso boomerang

simmetrico dotato di finestrini nei posti più inverosimili. Delle frecce indicavano

la posizione della sala da ballo e di due campi da squash. Era datato 1936.

— Non mi direte che questa roba volava. — Guardai Dialta Downes.

— Oh, no, impossibile, anche con quelle dodici eliche giganti; ma alla gente

piaceva quel look, capite? Da New York a Londra in meno di due giorni, sale da

pranzo di prima classe, cabine private, ponti per abbronzarsi, serate danzanti

con orchestra jazz. . I progettisti cercavano di dare al pubblico quello che

desiderava. E quello che il pubblico desiderava era il futuro.

Ero a Burbank da tre giorni impegnato a cercare di soffondere di carisma un

cantante rock molto insipido, quando ricevetti il pacco di Cohen. È possibile

fotografare l'inesistente, ma è maledettamente difficile riuscirci, e di

conseguenza questo è un talento molto ricercato sul mercato. Anche se ci so fare,

non si può dire che sia il migliore, e quel tipo metteva a dura prova la credibilità

della mia Nikon. Uscii depresso perché mi piace fare un buon lavoro, ma non del

tutto, perché mi ero assicurato di ricevere comunque l'assegno, e decisi di

tirarmi su con la sublime artisticità del lavoro per la Barris-Watford. Cohen mi

aveva mandato alcuni libri sul design degli anni ‘30, foto di edifici aerodinamici,

e una lista dei cinquanta esempi più importanti in California compilata da Dialta

Downes. La fotografia architettonica può comportare lunghe attese; l'edificio

diventa una specie di meridiana, mentre si aspetta che l'ombra si allontani da un

particolare, che la massa e l'equilibrio della struttura si rivelino in una certa

maniera. Mentre aspettavo, mi immaginai nell'America di Dialta Downes.

Quando isolavo alcuni edifici industriali nel mirino smerigliato della Hasselblad,

questi assumevano una specie di totalitaria dignità, come gli stadi che Albert

Speer aveva costruito per Hitler. Ma il resto era implacabilmente volgare: roba

effimera, secreta dall'inconscio collettivo americano degli anni ‘30, che

sopravviveva lungo strade deprimenti su cui si allineavano motel polverosi,

venditori all'ingrosso di materassi ed esposizioni di macchine usate. Mi buttai

sulle stazioni di servizio. Al culmine dell'Era di Downes, Ming lo Spietato era

stato incaricato di progettare le stazioni di servizio della California. Seguendo

l'architettura della sua nativa Mongo, aveva percorso in lungo e in largo la costa

erigendo postazioni di cannoni laser in stucco bianco. Nella maggior parte vi

erano superflue torrette centrali circondate da quegli strani radiatori che erano

il marchio distintivo dello stile e sembravano generare potenti flussi di

entusiasmo per la tecnologia. Bastava trovare il modo per riportarle in vita. Ne

fotografai una, a San José, un'ora prima che arrivassero i bulldozer e

distruggessero la verità architettonica di stucco, incannicciato e cemento da

poco prezzo.

«Dovete immaginare» gli aveva detto Dialta Downes, «una specie di America

alternativa: un 1980 mai esistito. Un'architettura di sogni infranti.» E quella era

la mia disposizione mentale mentre percorrevo le stazioni della sua involuta via

crucis socioarchitettonica nella mia Toyota rossa, e gradualmente mi

sintonizzavo sulla sua immagine umbratile di un'America che non c'era, di

fabbriche di Coca-Cola simili a sottomarini arenati, di cinema di quinta visione

simili a templi di una setta perduta che aveva adorato specchi azzurri e la

geometria. E mentre mi muovevo fra quelle rovine segrete mi trovai a pensare a

cosa avrebbero pensato gli abitanti del futuro perduto del mondo in cui io

vivevo. Gli anni ‘30 sognavano marmi bianchi e cromature aerodinamiche,

cristalli immortali e bronzo brunito; ma i razzi sulla copertina delle riviste di

Gernsback erano caduti su Londra in piena notte, sibilando. Dopo la guerra tutti

avevano avuto una macchina, ma senza ali, e le autostrade promesse per farla

correre, tanto che il cielo stesso si era oscurato e i fumi avevano divorato i

marmi e corroso i cristalli miracolosi. .

E un giorno, alla periferia di Bolinas, mentre mi stavo preparando a

fotografare un esemplare particolarmente sontuoso di architettura militare

Ming, penetrai una sottile membrana, una membrana probabilistica. .

Senza accorgermene, superai il Confine. .

E alzando gli occhi vidi un apparecchio a 12 motori, simile a un boomerang

ingrossato, tutto ali, che si muoveva verso est con grazia elefantina, così basso

che avrei potuto contarne i rivetti sullo scafo argento opaco, e sentire, forse,

l'eco di un'orchestra jazz.

Andai da Kihn.

Merv Kihn, giornalista indipendente specializzato in pterodattili texani,

contadini reazionari che avevano avuto contatti con gli UFO, mostri di Loch Ness

di terza classe e le dieci più diffuse teorie sulle cospirazioni nate nelle zone

retrograde dell'immaginario collettivo americano.

— Non è male — disse Kihn, pulendosi gli occhiali da tiro a segno Polaroid con

un lembo della camicia hawaiana — ma non è veramente cerebrale. Gli manca

quel certo quid.

— Ma l'ho visto, Merv. — Eravamo seduti ai bordi di una piscina, sotto il sole

splendente dell'Arizona. Lui era a Tucson, in attesa di un gruppo di impiegate

statali di Las Vegas in pensione, la cui portavoce riceveva messaggi dagli Alieni

per mezzo di un forno a microonde. Avevo guidato tutta notte, e me lo sentivo

nelle ossa.

— Ma certo che l'hai visto. Hai letto i miei articoli — non hai ancora afferrato

la mia soluzione definitiva del problema degli UFO? È semplicissimo: la gente —

si sistemò accuratamente gli occhiali sul lungo naso aquilino e mi rivolse uno

sguardo da basilisco — VEDE. . delle cose. La gente le vede. Non c'è niente, ma la

gente le VEDE lo stesso, capisci? Perché ne hanno bisogno, probabilmente. Hai

letto Jung, dovresti sapere qual è la causa. . Nel tuo caso è piuttosto ovvia: hai

detto che stavi pensando a questa architettura demenziale, ci fantasticavi sopra. .

Ascolta, sono sicuro che anche tu ti sei fatto la tua parte di droghe, giusto?

Quanti hanno visto passare gli anni ‘60 in California senza avere almeno una

volta quelle strane allucinazioni? Per esempio quando sembrava che i jeans

fossero diventati un ologramma di geroglifici disegnati dalla Walt Disney, o

quando. .

— Ma non era così.

— Certo che non era così. Era completamente diverso. Era “su uno sfondo

perfettamente reale”, giusto? Tutto normale, poi compare il mostro, il mandala, il

sigaro fluorescente. Nel tuo caso un gigantesco aeroplano stile “Amazing”.

Succede in continuazione. Non sei neppure pazzo. Lo sai, vero? — prese una

birra dalla borsa refrigerante malandata che aveva vicino alla sedia a sdraio.

— La settimana scorsa ero in Virginia. Grayson County. Ho intervistato una

ragazzina di sedici anni che era stata assalita da una testa di orso.

— Che?

— La testa tagliata di un orso. Se ne svolazzava in giro sul suo disco volante,

che sembrava il coprimozzo della vecchia Cadillac di suo cugino Wayne. Aveva

occhi rossi, luccicanti come due mozziconi di sigaro e antenne telescopiche che

gli uscivano da dietro le orecchie. — Fece un rutto.

— E l'ha assalita? Come?

— È meglio che non te lo dica. Sei un tipo impressionabile. “Era freddo” —

fece una brutta imitazione dell'accento del sud — “e metallico.” Faceva suoni

elettronici. È un prodotto genuino, amico: direttamente dall'inconscio collettivo;

quella ragazzina è una strega. Non c'è posto per lei in questa società.

Sicuramente se non fosse cresciuta con “L'uomo bionico” e le repliche di Star

Trek avrebbe detto di aver visto il diavolo. Ha semplicemente seguito la

corrente. E sa esattamente cosa le è successo. Ero uscito da dieci minuti quando

sono arrivati gli ufologi con la macchina della verità.

Dovevo avere un'aria preoccupata, perché lui appoggiò la birra vicino alla

borsa refrigerante e si alzò.

— Se vuoi una spiegazione più intellettuale, direi che hai visto un fantasma

semiotico. Tutte queste storie di incontri ravvicinati, per esempio, sono calate

nella dimensione fantascientifica che permea la nostra cultura. Posso anche

credere agli alieni, ma non a degli alieni che assomigliano a fumetti degli anni

‘50. Sono fantasmi semiotici, frammenti di un immaginario culturale che si è

separato e ha acquistato una vita autonoma, come le navi volanti alla Giulio

Verne che vedevano sempre quei vecchi contadini del Kansas. Tu hai visto un

tipo diverso di fantasma, ecco tutto. Un tempo quell'aereo faceva parte

dell'inconscio collettivo. In qualche maniera l'hai catturato. L'importante è non

preoccuparsene.

Ma io me ne preoccupavo.

Kihn si pettinò i radi capelli biondi e uscì per sentire cosa dicevano gli alieni

sulle frequenze radar, e io tirai le tende della mia camera e mi stesi nel buio ad

aria condizionata per preoccuparmi. Stavo ancora preoccupandomi quando mi

svegliai. Kihn aveva lasciato un biglietto sulla mia porta: aveva preso un volo

charter diretto a nord, per controllare delle voci su mutazioni del bestiame.

Un'altra delle sue specialità giornalistiche.

Io pranzai, feci una doccia, ingoiai una pillola dimagrante mezza sbriciolata

che girava in fondo alla mia borsa da barba da tre anni, e ripartii per Los

Angeles.

La velocità mi limitava il campo visivo al tunnel creato dai fari della Toyota. Mi

dissi che il corpo poteva guidare mentre la mente riposava. Riposava e si teneva

lontana dalle bizzarre immagini prodotte dall'anfetamina, dalla stanchezza e

dalla spettrale, luminosa vegetazione che cresce alla coda dell'occhio della

mente, lungo un'autostrada a tarda notte. Ma la mente ha le sue idee, e

l'opinione di Kihn su quello che ormai consideravo il mio “avvistamento” mi

girava per la testa in un'orbita asimmetrica.

Fantasmi semiotici. Frammenti del Sogno Collettivo, che svolazzavano nella

scia della macchina. Probabilmente tutto quel ragionamento fece uno strano

effetto alla pillola dietetica, e la vegetazione confusa ai margini della strada

assunse il colore delle immagini all'infrarosso dei satelliti, frammenti luminosi

soffiati via dalla Toyota. Allora parcheggiai, e il riflesso dei fari sulle lattine di

birra sparse in strada cessò improvvisamente quando spensi i fari, come un

augurio di buona notte. Calcolai che ore dovevano essere a Londra, e cercai di

immaginarmi Dialta Downes che faceva colazione nel suo appartamento di

Hampstead, circondata da statuette cromate e libri sulla cultura americana.

Le notti del deserto, là, sono enormi; la luna è più vicina. Osservai a lungo la

luna e decisi che Kihn aveva ragione. L'importante era non preoccuparsi. In tutto

il continente, gente più normale di quanto avrei mai potuto essere, vedeva ogni

giorno uccelli giganti, yeti, raffinerie petrolifere volanti; servivano a dare lavoro

a Kihn. Perché sentirsi sconvolti da una visione dell'immaginario popolare a

passeggio nel cielo di Bolinas? Decisi di addormentarmi avendo come unica

preoccupazione i serpenti a sonagli e gli hippy cannibali, al sicuro fra

l'amichevole spazzatura del mio continuum quotidiano. La mattina avrei

raggiunto Nogales e fotografato i vecchi bordelli, una cosa che volevo fare da

anni. La pillola dietetica aveva dato forfait.

Prima mi svegliò la luce, poi le voci.

La luce veniva dalle mie spalle e gettava ombre mutevoli nella macchina. Le

voci erano calme, indistinte, maschili e femminili, e conversavano fra alieni.

Avevo il collo irrigidito, e mi sentivo gli occhi impastati. Mi si era

addormentata una gamba, premuta contro il volante. Cercai gli occhiali nella

tasca della camicia, e alla fine li trovai. Poi mi guardai alle spalle e vidi la città.

I libri sul design degli anni ‘30 erano nel portabagagli; in uno di essi c'erano

delle illustrazioni di una città idealizzata, ricavata da “Metropolis” e dal “Mondo

futuro”, ma in cui tutto era più squadrato e si innalzava attraverso perfette

nuvole architettoniche, fino a pontili di attracco per dirigibili e assurdi pinnacoli

fluorescenti. Quella città era un modello in scala di quella che c'era alle mie

spalle. Guglie si innalzavano su altre guglie, in scintillanti gradini da ziggurat che

culminavano in un tempio dorato a forma di torre, con quelle pazzesche flange

da radiatore delle stazioni di servizio Mongo. Nella più piccola di quelle torri

avrebbe trovato posto l'intero Empire State Building. Strade di cristallo si

snodavano fra i pinnacoli, e su di esse scorrevano forme lisce e argentee come

perline di mercurio. L'aria era piena di navi: transatlantici tutti ali, piccoli oggetti

argentei dardeggianti (qualche volta una delle gocce di mercurio si sollevava

elegantemente dai pontili aerei e si univa alla danza), dirigibili lunghi un miglio,

cose simili a libellule che erano girocotteri. .

Chiusi forte gli occhi e mi girai sul sedile. “Quando li riapro” mi dissi “devo

vedere il contachilometri, la polvere bianca della strada sul cruscotto di plastica

nera, il portacenere pieno.”

— Psicosi da anfetamine — dissi. Aprii gli occhi. Il cruscotto c'era ancora, con

la polvere e i mozziconi schiacciati. Adagio senza muovere la testa, accesi i fari.

E li vidi.

Erano biondi. Erano in piedi vicino alla Alieni-macchina, una pera di alluminio

con una pinna da squalo che sporgeva dalla linea centrale e pneumatici neri e

lisci come quelli di un giocattolo. Lui le teneva un braccio attorno alla vita e

gesticolava verso la città. Indossavano fluenti vesti bianche che lasciavano

scoperte le gambe, e sandali bianchi immacolati. Nessuno dei due sembrava

essersi accorto dei miei fari. Lui stava dicendo qualcosa di saggio e importante, e

lei annuiva, e d'improvviso io ebbi paura, paura in modo completamente

diverso. L'equilibrio mentale aveva cessato di essere un problema; sapevo, in

qualche maniera, che la città alle mie spalle era Tucson: una Tucson di sogno,

creata dal desiderio collettivo di un'epoca. Sapevo che era reale, del tutto reale.

Ma la coppia di fronte a me viveva lì, ed erano gli Alieni a spaventarmi.

Erano i figli degli “Anni-80 mai esistiti” di Dialta Downes, erano gli Eredi del

Sogno. Erano bianchi, biondi, e probabilmente avevano occhi azzurri. Americani.

Dialta aveva detto che il futuro era arrivato prima in America, ma che poi se l'era

lasciata alle spalle. Ma non qui, nel cuore del Sogno. Noi avevamo proseguito, in

una logica onirica che ignorava l'inquinamento, i limiti dei combustibili fossili, le

guerre che era possibile perdere. Erano felici e del tutto soddisfatti di loro stessi

e del loro mondo. E, nel Sogno, quel mondo era loro.

Alle mie spalle, la città illuminata: riflettori fendevano gioiosi il cielo. Li

immaginai radunati sulle piazze di bianco marmo, puliti e attenti, con gli occhi

che brillavano di entusiasmo per i viali luminosi e le auto argentee.

Avevano una sinistra vitalità da propaganda della Gioventù Hitleriana. Avviai

la macchina e avanzai adagio, finché il paraurti fu a un metro da loro. Ancora non

mi avevano visto. Abbassai il finestrino e ascoltai quello che diceva l'uomo. Le

sue parole erano limpide e secche come un dépliant della Camera di Commercio,

e io sapevo che lui credeva senza riserve a quello che stava dicendo.

— John — sentii dire la donna — ci siamo dimenticati di prendere le pillole

nutritive. — Tirò fuori due cialde da un oggetto che aveva alla cintura e ne passò

una all'uomo. Io feci retromarcia fino all'autostrada e ripartii verso Los Angeles,

rabbrividendo e scuotendo la testa.

Telefonai a Kihn da una stazione di servizio. Gli dissi che era una storia nuova

di un brutto stile spagnolo moderno. Era appena tornato dalla sua spedizione, e

non sembrava infastidito dalla mia chiamata.

— Sì, è una cosa bizzarra. Hai cercato di fare delle foto? Non vengono mai, ma

aggiungono un tocco di mistero alla storia, il fatto che non si riesca a

svilupparle. .

Ma cosa dovevo fare?

— Guarda molta televisione, in particolare quiz e telenovelas. Vai a vedere

film porno. Hai mai visto “Nazi Love Motel”? Lo trasmettono via cavo. È

veramente mostruoso. Proprio quello che ti serve. Ma di cosa stava parlando?

— Smettila di gridare e ascoltami. Ti svelerò un segreto del mestiere: i

peggiori sottoprodotti dei media possono esorcizzare i fantasmi semiotici. Se

con questo sistema sono riuscito a salvarmi dai marziani, allora dovrebbe andar

bene anche per i tuoi incubi futuristi Art Deco. Cos'hai da perdere?

Poi si scusò, dicendo che aveva un appuntamento la mattina dopo con l'Eletta.

— Chi?

— La vecchia che parla con Vega, quella del forno a microonde.

Presi in considerazione la possibilità di chiamare Londra a carico destinatario,

scovare Cohen alla Barris-Watford e dirgli che il suo fotografo era partito per

una lunga vacanza nella Zona Oscura. Alla fine mi lasciai preparare da una

macchina una tazza di caffè imbevibile e risalii sulla Toyota per l'ultima tirata

fino a Los Angeles.

Scoprii che andare a Los Angeles era stata una pessima idea, e ci passai due

settimane. Era tutto territorio di Downes; c'era troppo del Sogno, lì, troppi

frammenti del Sogno pronti a catturarmi. Per poco non fracassai la macchina su

un raccordo vicino a Disneyland, quando la strada si spalancò a ventaglio come

un origami, e mi ritrovai a zigzagare fra una decina di corsie, in mezzo a

centinaia di gocce cromate con pinne da Cadillac sul retrotreno. Peggio ancora:

Hollywood era piena di gente che assomigliava troppo alla coppia che avevo

visto in Arizona. Mi misi d'accordo con un regista italiano che sbarcava il lunario

facendo lavori di sviluppo e stampa e installando pavimentazioni attorno alle

piscine in attesa che arrivasse la sua grande occasione. Lui mi stampò tutti i

negativi che avevo accumulato per Downes. Io non volevo guardarle. Ma a

Leonardo non facevano alcun effetto, e quando ebbe finito diedi un'occhiata alle

stampe, sfogliandole come un mazzo di carte, le chiusi in busta e le spedii a

Londra per posta aerea. Poi presi un taxi fino a un cinema dove davano “Nazi

Love Motel”, e tenni gli occhi chiusi dall'inizio alla fine. Il telegramma di

congratulazioni di Cohen mi arrivò a San Francisco una settimana dopo. Dialta

aveva apprezzato molto le foto. Lui era rimasto colpito da come mi ero

“immedesimato”, e sperava di lavorare ancora con me. Quel pomeriggio vidi

un'ala volante sopra Castro Street, ma aveva un aspetto diafano, come se ci fosse

solo per metà. Corsi all'edicola più vicina e presi tutto quello che riuscii a trovare

sulla crisi petrolifera e il rischio nucleare. Avevo appena deciso di comprare un

biglietto aereo per New York.

— In che razza di mondo viviamo, eh? — l'edicolante era un negro magro, con

i denti cariati e un parrucchino quasi ostentato. Io annuii, frugandomi nelle

tasche dei jeans alla ricerca dei soldi, ansioso di trovare una panchina in un

parco per immergermi nella prova lampante della quasi-distopia in cui

vivevamo. — Ma potrebbe essere peggio, eh?

— Già — dissi io. — O peggio ancora, potrebbe essere perfetto.

Lui mi guardò mentre mi allontanavo stringendo sottobraccio il mio fagottino

di catastrofi.