You can not select more than 25 topics Topics must start with a letter or number, can include dashes ('-') and can be up to 35 characters long.
 

47 KiB

La notte che bruciammo Chrome

(Burning Chrome, 1981)

Faceva caldo, la notte che bruciammo Chrome. Nei viali e nelle piazze le falene

sbattevano fino a morire contro le luci al neon, ma nella mansarda di Bobby

l'unica luce era quella del monitor e dei led rossi e verdi del simulatore di

matrice. Conoscevo a memoria ogni chip del simulatore di Bobby: sembrava un

normalissimo Ono-Sendai 7, il “Cyberspace Seven”, ma l'avevo ricostruito tante

di quelle volte che sarebbe stato difficile trovare un millimetro quadrato di

circuiti originali in quel silicio.

Aspettammo fianco a fianco di fronte alla consolle del simulatore, osservando

il contaminuti nell'angolo in basso a sinistra dello schermo.

— Vai — dissi, quando fu il momento, ma Bobby si era già chinato in avanti a

infilare il programma russo nella fessura con il palmo della mano. Lo fece con la

grazia tesa di un ragazzino che infila la moneta in un gioco elettronico con la

certezza di vincere una serie di giochi gratis.

Un'ondata fosforescente si sollevò nel mio campo visivo mentre la matrice

cominciava a dispiegarmisi nella mente, una scacchiera tridimensionale

perfettamente trasparente che si estendeva all'infinito. Mentre entravamo nella

griglia mi parve che il programma avesse dato un sobbalzo. Se qualcun altro si

fosse inserito in quella parte della matrice avrebbe visto un'ombra guizzante

uscire dalla piccola piramide gialla che rappresentava il nostro computer. Il

programma era un'arma mimetica, progettata per assorbire il colore locale e

assumere la priorità assoluta in qualsiasi contesto incontrato.

— Congratulazioni — sentii dire Bobby. — Siamo appena diventati una sonda

di ispezione dell'Ente Fissione della Costa Orientale. . — significava che stavamo

scivolando lungo le linee fibro-ottiche con innestato l'equivalente cibernetico di

una sirena d'emergenza, ma nella matrice di simulazione correvamo dritti verso

il database di Chrome. Non potevo vederlo ancora, ma già sapevo che quelle

mura ci attendevano. Mura di ombra, mura di ICE.

Chrome: una graziosa faccia da bambina liscia come acciaio, occhi che

sembravano nati in qualche fossa oceanica, occhi freddi e grigi sotto una

pressione terribile. Dicevano che si divertisse a inventare forme particolari di

cancro per quelli che le intralciavano il cammino: varianti macabre e barocche

che impiegavano anni a uccidere. Di Chrome si dicevano un sacco di cose,

nessuna molto rassicurante. Perciò cancellai nella mente la sua immagine,

sovrapponendole quella di Rikki. Rikki inginocchiata in un raggio di luce

polverosa che filtrava nella mansarda attraverso una griglia di acciaio e vetro: i

pantaloni mimetici sbiaditi, i sandali rosa trasparenti, la linea armoniosa della

sua schiena nuda mentre frugava in una borsa di nylon. Alza gli occhi, e un

ricciolo biondo-castano le scende a solleticarle il naso. Sorride, allacciandosi una

vecchia camicia di Bobby, il cotone logoro color kaki teso sui seni.

Sorride.

— Figlio di puttana — disse Bobby. — Abbiamo appena detto a Chrome che

siamo un'ispezione fiscale e tre citazioni della Corte Suprema. . Stringi le

chiappe, Jack. .

Addio Rikki. Forse adesso non ti rivedrò più.

Era buio, così buio nelle sale dell'ICE di Chrome.

Bobby era un cowboy, e l'ICE era il suo campo di azione: ICE significava

“Contromisure Elettroniche d'Intrusione”. La matrice è una rappresentazione

astratta delle relazioni fra i Sistemi di dati. I programmatori autorizzati si

inseriscono nel settore della matrice appartenente ai loro datori di lavoro e si

trovano circondati da luminose forme geometriche che rappresentano i dati

della società. Torri e campi si dispiegano nel non-spazio incolore della matrice,

questa allucinazione collettiva elettronica che facilita il trattamento e lo scambio

di grandi quantità di dati. I programmatori autorizzati non vedono mai le pareti

di ICE dietro cui lavorano, le mura d'ombra che nascondono le loro operazioni a

occhi indiscreti, agli artisti dello spionaggio industriale, ai truffatori come Bobby

Quine.

Bobby era un cowboy. Bobby era uno scassinatore, un ladro che perlustrava il

sistema nervoso elettronico dell'umanità, razziava dati e crediti nell'affollata

matrice, lo spazio monocromatico dove le uniche stelle sono costituite da

concentrazioni di dati, e in alto bruciano le galassie delle multinazionali e le

fredde braccia a spirale dei sistemi militari.

Bobby era una di quelle facce giovani-vecchie che si vedono al Gentleman

Loser , il bar chic dei cowboy del computer, razziatori, ladri cibernetici. Eravamo

soci.

Bobby Quine e Automatic Jack. Bobby è il tipo magro pallido, con gli occhiali

scuri, Jack quello dall'aria poco raccomandabile, con il braccio mioelettrico.

Bobby si occupa del software, Jack dell'hardware; Bobby manovra la tastiera e

Jack si occupa di tutte quelle piccole cose che possono dare un vantaggio. O

almeno questo è quanto avrebbero detto i fannulloni del Gentleman Loser prima

che Bobby decidesse di bruciare Chrome. Ma forse avrebbero detto anche che

Bobby stava perdendo la grinta, che non era più quello di una volta. Aveva 28

anni, Bobby, e sono tanti per un cowboy della consolle. Eravamo tutti e due bravi

nel nostro mestiere, ma per una ragione o per l'altra il colpo grosso non era

ancora arrivato. Io sapevo dove andare per trovare la roba giusta, e Bobby era

un vero mago. Si sedeva con una fascia di spugna bianca attorno alla fronte, e

muoveva le dita sulla tastiera così veloce che non si riusciva a seguirlo,

aprendosi la strada attraverso l'ICE più assurdo in circolazione; ma questo

succedeva quando qualcosa riusciva a metterlo veramente in agitazione, e

questo capitava di rado. Non era un tipo molto motivato, Bobby e quanto a me,

mi bastava poter pagare l'affitto e mettermi una camicia pulita.

Ma Bobby aveva il pallino delle ragazze, come se fossero i suoi tarocchi

personali o qualcosa del genere; erano lo stimolo per farlo muovere. Non ne

parlammo mai, ma quando sembrò che stesse cominciando a perdere il tocco,

quell'estate, trascorreva sempre più tempo al Gentleman Loser. Sedeva a un

tavolo vicino alla porta aperta e osservava la gente passare nelle sere in cui gli

insetti si affollavano intorno alle luci al neon e l'aria puzzava di profumo e fast

food. Si vedevano i suoi occhiali scuri passare in rassegna le facce, e fu così che

decise che Rikki era quella che aspettava, il jolly, il colpo di fortuna. Quella

nuova.

Andai a New York per tastare il polso al mercato, per vedere cosa c'era di

nuovo in fatto di software clandestino. Il locale di Finn ha un ologramma

difettoso in vetrina, “metro holografix”, sopra tutta un'esposizione di mosche

morte coperte di polvere grigia. All'interno la cianfrusaglia è come un oceano,

accumulata contro le pareti appena visibili dietro immondizia informe dietro

scaffali di truciolato incurvati pieni di vecchie riviste per soli uomini e annate di

“National Geographic” dalla costa gialla.

— Hai bisogno di una pistola — disse Finn. Sembra un prototipo di ingegneria

genetica, un incrocio fra una talpa e un uomo fabbricato per scavare gallerie ad

alta velocità. — Sei fortunato. Ho la nuova Smith & Wesson, la 408 Tattica. Ha un

proiettore allo xeno sotto la canna, vedi; le batterie sono nel calcio. Crea un cono

luminoso come il sole e largo 30 centimetri a 50 metri di distanza, nel buio più

assoluto. La sorgente di luce è piccolissima, quasi impossibile da individuare. È

fantastica in un eventuale combattimento notturno. Lasciai cadere il braccio sul

tavolo e cominciai a tamburellare con le dita, i servomotori nella mano che

ronzavano come mosche impazzite. Sapevo che Finn odiava quel rumore.

— Vuoi venderla? — Toccò il polso di duralluminio con la canna smangiata di

un pennarello. — Così magari te ne fai una più silenziosa.

Io continuai. — Non ho bisogno di nessuna pistola, Finn.

— Okay — disse lui — okay — e io smisi di tamburellare. — Ho solo questo

articolo, e non so neanche che cosa sia. — Aveva un'aria infelice. — L'ho preso

da certi ragazzini del Jersey la settimana scorsa.

— Da quando in qua compri qualcosa che non conosci, Finn?

— Furbastro. — E mi passò una busta trasparente con dentro qualcosa che

sembrava una cassetta audio, attraverso l'imbottitura a bolle. — Avevano un

passaporto — disse. — Carte di credito e un orologio. E questo.

— Vuoi dire che lo avevano trovato in tasca a qualcuno.

Lui annuì.

— Il passaporto era belga. E aveva anche l'aria di essere falso, perciò l'ho

messo nella fornace, e ci ho messo anche le carte. L'orologio era okay, un

Porsche, bell'orologio. Era evidentemente un programma militare. Estratto dalla

busta, assomigliava al caricatore di un piccolo fucile d'assalto rivestito di plastica

nera opaca. Gli angoli mostravano del metallo bianco; doveva essere stato usato

parecchio.

— Ti faccio un prezzo di favore, Jack. In ricordo dei vecchi tempi.

Non potei fare a meno di sorridere. Avere un prezzo di favore da Finn era

come vedere Dio che faceva il favore di annullare la gravità quando si doveva

portare una valigia pesante per un chilometro di corridoi d'aeroporto.

— A me sembra russo — dissi. — Probabilmente ci sono dentro i controlli di

emergenza per le fogne di qualche sobborgo di Leningrado. Proprio quello che

mi serve.

— Sai — disse Finn — ho un paio di scarpe più vecchie di te. Qualche volta

penso che tu abbia tanta classe quanta quei teppisti di Jersey. Cosa vuoi che ti

dica, che sono le chiavi del Cremlino? Scoprilo tu a cosa serve. Io la roba la vendo

e basta.

Lo comprai.

Privi di corpo, ci infiliamo nel castello di ICE di Chrome. Siamo veloci, veloci. È

come se corressimo sull'onda del programma invasore, scivolando sopra il

ribollire in continuo mutamento dei sistemi sabotatori. Siamo macchie di olio

pensanti, trasportate lungo corridoi d'ombra.

Da qualche parte abbiamo dei corpi, molto lontano, in una mansarda stipata

con il soffitto di acciaio e vetro. Da qualche parte abbiamo microsecondi, forse il

tempo sufficiente per uscirne. Abbiamo sfondato i suoi cancelli camuffati come

un'ispezione e tre citazioni, ma le sue difese sono programmate appositamente

per reagire a questo tipo di intrusioni ufficiali Il suo ICE più sofisticato è

strutturato per respingere mandati, ingiunzioni, citazioni. Una volta superato il

primo cancello la massa dei suoi dati è svanita dietro l'ICE del nucleo centrale:

queste pareti che vediamo come leghe di corridoi, labirinti d'ombra. Su cinque

linee separate erano partiti segnali di allarme ad altrettanti studi legali, ma il

virus aveva già intaccato l'ICE periferico. I sistemi sabotatori inghiottono le

chiamate di allarme mentre i nostri subprogrammi mimetici analizzano tutto

quello che non è coperto dall'ICE centrale. Il programma russo seleziona un

numero di Tokyo fra i dati non protetti, scegliendolo in base alla frequenza delle

chiamate, alla durata media, alla velocità con cui Chrome risponde a queste

chiamate.

— Okay — dice Bobby — adesso siamo una chiamata in codice in arrivo dal

suo amico giapponese. Dovrebbe servire. Forza, cowboy.

Bobby leggeva il suo futuro nelle donne; le sue ragazze erano presagi,

cambiamenti atmosferici, e sedeva tutta la sera al Gentleman Loser in attesa che

la stagione gli servisse una nuova faccia, come una mano di carte.

Io avevo lavorato fino a tardi nella mansarda, una sera, limando un chip, senza

il braccio e con il manipolatore collegato direttamente al moncherino.

Bobby arrivò con una ragazza che non avevo mai visto, e di solito mi sento un

po' imbarazzato se un estraneo mi vede lavorare in quella maniera, con i fili

attaccati agli spinotti di carbonio che sporgono dal moncherino. Mi venne vicino

e guardò l'immagine ingrandita sullo schermo, poi vide il manipolatore che si

muoveva sotto la calotta sigillata. Non disse nulla, si limitò a guardare. Ebbi

subito una buona impressione di lei; a volte capita.

— Automatic Jack, Rikki. Il mio socio.

Rise e le mise un braccio attorno alla vita, e qualcosa nella sua voce mi fece

capire che avrei dovuto passare la notte in una sudicia camera d'albergo.

— Ciao — disse lei. Alta, 19, forse 20 anni, e decisamente aveva tutti i numeri

giusti. Spruzzatina di lentiggini attorno all'attaccatura del naso, occhi di un

colore a metà strada fra l'ambra scura e il caffè francese. Jeans stretti e neri,

arrotolati fino a metà polpaccio e una stretta cintura di plastica in tinta con i

sandali rosa. Ma adesso, quando mi capita di vederla mentre cerco di

addormentarmi, la vedo da qualche parte ai bordi di questo agglomerato di città

e di fumo, ed è come un ologramma incastrato dietro i miei occhi, con addosso

un vestito chiaro che deve avere indossato una volta, quando la conoscevo, che

non le arriva neppure alle ginocchia. Gambe nude, lunghe e dritte. Capelli castani

con venature bionde, mossi dal vento, le nascondono la faccia. La vedo salutarmi

con la mano. Bobby si stava dando un gran da fare frugando in una pila di

cassette audio. — Arrivo, cowboy — dissi, staccando i cavi del manipolatore. Lei

mi osservò attenta mentre mi rimettevo il braccio.

— Sai aggiustare una cosa? — mi chiese.

— Tutto quello che vuoi: basta chiedere e Automatic Jack te la sistema. — Feci

schioccare in suo onore le dita di duralluminio. Lei prese dalla cintura una

piccola piastra simstim e mi fece vedere la cerniera rotta del coperchio delle

cassette.

— Domani — dissi. — Nessun problema.

“Oh-oh” mi dissi, mentre il sonno mi spingeva giù per sei rampe di scale, fino

alla strada, “quale sarà la fortuna di Bobby, con una carta come quella? Se il suo

sistema funziona, diventeremo ricchi da un giorno all'altro.” In strada sorrisi,

sbadigliai e chiamai un taxi.

Il castello di Chrome si sta dissolvendo, lastre di ICE scuro svaniscono

lampeggiando, divorate dai sistemi di sabotaggio che si dipanano dal

programma russo, espandendosi dal nostro nucleo logico centrale e

infettandone la struttura stessa. I sistemi di sabotaggio sono virus cibernetici

auto-replicanti voraci. Mutano in continuazione, all'unisono, sovvertendo e

assorbendo le difese di Chrome.

L'abbiamo già paralizzata, oppure un campanello sta suonando da qualche

parte, una spia rossa lampeggia? Se n'è accorta?

Bobby la chiamava Rikki Wildside, e probabilmente durante quelle prime

settimane le era sembrato di avere tutto, che l'intero spettacolo fosse stato

messo in scena per lei sola, nitido e brillante sotto le luci al neon. Era nuova del

giro, e aveva chilometri di viali e piazze da esplorare, tutti i negozi e i club e

Bobby a spiegarle il lato nascosto, i fili sotterranei, i giocatori e i loro nomi e i

loro giochi. La fece sentire a casa.

— Cosa ti è successo al braccio? — mi chiese una sera al Gentleman Loser ,

mentre noi tre bevevamo in un tavolino d'angolo.

— Mentre volavo — dissi. — Un incidente.

— Mentre volava su un campo di grano — disse Bobby — vicino a un posto

che si chiama Kiev. Il nostro Jack volava al buio su un deltaplano con un radar di

50 chili fra le gambe, e uno stronzo russo gli ha bruciato accidentalmente un

braccio con un laser.

Non ricordo come sia riuscito a cambiare argomento, ma lo feci. Mi stavo

tuttora dicendo che non era Rikki a darmi sui nervi, ma quello che Bobby faceva

con lei. Lo conoscevo da un pezzo, dalla fine della guerra, e sapevo che usava le

donne come gettoni in un gioco: Bobby Quine contro la fortuna, contro il tempo e

la notte delle città. E Rikki era saltata fuori proprio nel momento in cui aveva

bisogno di qualcosa che lo rimettesse in carreggiata, qualcosa a cui tendere. Così

l'aveva elevata a simbolo di tutto quello che voleva e non poteva avere, di tutto

quello che aveva avuto e non era riuscito a tenersi. Non mi piaceva ascoltarlo

mentre mi diceva quanto l'amava, e sapere che ci credeva serviva solo a rendere

la cosa peggiore. Era un esperto di cadute rovinose e altrettanto rapide risalite,

gliel'avevo già visto fare una dozzina di volte. Avrebbe dovuto scriversi “Avanti

un'altra” in lettere fosforescenti sugli occhiali da sole, pronto a rivolgerle alla

prima faccia interessante che passava dai tavoli del Gentleman Loser.

Sapevo cosa ne faceva. Le trasformava in emblemi, sigilli sulla mappa della sua

vita di truffatore, fari con cui orientarsi nel mare di bar e luci al neon che

attraversava quotidianamente. Cos'altro aveva per aiutarsi a trovare la strada?

Non amava il denaro in se stesso, non abbastanza da seguirne il luccichio. Non

avrebbe lavorato per avere potere sugli altri: odiava le responsabilità che ne

derivavano. Aveva un certo orgoglio per la sua abilità, ma non bastava a farlo

andare avanti.

Perciò sistemava tutto con le donne.

Quando apparve Rikki, aveva bisogno di una donna più di ogni altra cosa al

mondo. Stava perdendo rapidamente smalto, e fra gli addetti al mestiere si

diceva già che non ci sapesse più fare. Aveva bisogno di un colpo veramente

grosso, e in fretta perché non conosceva nessun altro genere di vita, e tutti i suoi

orologi erano regolati sul fuso orario delle truffe, calibrati in rischio e adrenalina

e su quella calma celestiale che sopraggiunge quando ogni mossa è quella giusta

e sul proprio conto viene accreditato un bel malloppo di soldi altrui. Era arrivato

il momento per lui di fare il suo colpo e chiudere bottega; perciò Rikki si vide

posta più in alto e più lontano di tutte le altre, anche se (e avrei voluto

urlarglielo) lei era lì, viva, totalmente vera, umana, affamata, elastica, annoiata

bellissima, eccitata, e tutte le altre cose che era. .

Un pomeriggio Bobby uscì, circa una settimana prima che io facessi quel

viaggio a New York per vedere Finn. Uscì e ci lasciò soli nella mansarda, ad

aspettare che scoppiasse il temporale. Metà lucernario era oscurato da una

cupola che non avevano mai finito, l'altra metà mostrava il cielo, nero e bluastro

di nuvole. Io ero in piedi vicino al banco di lavoro e guardavo il cielo, istupidito

dal pomeriggio afoso e dall'umidità, e lei mi tocco, mi toccò la spalla, e la

cicatrice tesa e rosa, larga un centimetro, non coperta dal braccio. Tutte quelle

che mi hanno toccato lì sono risalite alla spalla, al collo. .

Ma lei non lo fece. Le sue unghie erano laccate di nero, non appuntite ma

oblunghe, la lacca solo una sfumatura più scura del laminato in fibra di carbonio

che mi ricopre il braccio. E la sua mano scese lungo il braccio, le unghie nere che

seguivano una saldatura nel laminato fino all'articolazione del gomito in nero

metallo anodizzato, e al polso; la sua mano dalle nocche morbide come quelle di

un bambino, le dita allargate per intrecciarsi con le mie, il palmo contro il

duralluminio perforato.

L'altro palmo si sollevò per sfiorare i cuscinetti sensibili e piovve tutto il

pomeriggio, le gocce che battevano sull'acciaio e sul vetro sporco di smog sopra

il letto di Bobby.

Le pareti di ICE scorrono via come farfalle supersoniche fatte d'ombra. Dietro

di esse, l'illusione della matrice di uno spazio infinito. È come osservare un

nastro con la costruzione di un edificio prefabbricato; solo che il nastro scorre al

contrario e ad alta velocità, e le mura sono ali strappate.

Cerco di rammentare a me stesso che quel posto e gli spazi al di là di esso sono

solo rappresentazioni, che non siamo “dentro” il computer di Chrome, ma solo

interfacciati con esso, mentre il simulatore di matrice nella mansarda di Bobby

genera questa illusione. . I dati centrali cominciano ad emergere esposti,

vulnerabili. Questo è il lato opposto dell'ICE, la matrice che non ho mai potuto

scorgere, il paesaggio che 15 milioni di operatori cibernetici autorizzati vedono

ogni giorno e danno per scontato.

I dati centrali si innalzano attorno a noi come treni merci in verticale, con

colori in codice per l'accesso. Colori primari, luminosi in maniera impossibile in

quel vuoto trasparente, collegati da innumerevoli linee orizzontali in azzurro e

rosa confetto. Ma l'ICE nasconde ancora qualcosa, al centro di tutto: il cuore di

tutta la danarosa oscurità di Chrome, il cuore. .

Era tardo pomeriggio quando tornai dal mio giro di compere a New York.

Non passava molto sole dal lucernario, ma sul monitor di Bobby brillava un

modello di ICE, una rappresentazione grafica bidimensionale delle difese di un

computer, linee fluorescenti intrecciate come un tappeto da preghiera Art Deco.

Spensi la consolle, e lo schermo divenne completamente nero.

Le cose di Rikki erano sparse sul mio tavolo di lavoro, borse di nylon da cui

uscivano vestiti e arnesi per il trucco, una paio di stivaletti da cowboy a colori

vivaci, cassette audio, riviste giapponesi in carta patinata sulle stelle del simstim.

Infilai tutto sotto il tavolo, poi mi staccai il braccio, dimenticando che il

programma che avevo acquistato da Finn si trovava nella tasca destra della

giacca, per cui dovetti tirarlo fuori con la sinistra e infilarlo nelle ganasce

imbottite del morsetto da gioielliere.

Il manipolatore assomiglia a un vecchio grammofono, di quelli che suonavano

i dischi, con la morsa sotto una calotta trasparente. Il manipolatore vero e

proprio è lungo poco più di un centimetro, ed esce da quello che sarebbe stato il

braccio di uno di quei vecchi giradischi. Ma io non lo guardo, quando ho

collegato i fili al mio moncherino; guardo lo schermo, perché lì c'è il braccio, in

bianco e nero, ingrandito di 40 volte.

Passai in rassegna gli attrezzi, e scelsi un laser. Sembrava un po' pesante, e

regolai il sensore di peso a un quarto di chilo per grammo, e mi misi al lavoro. A

40 ingrandimenti il lato del contenitore del programma sembrava un autocarro.

Mi ci erano volute otto ore per decifrarlo: tre ore con il manipolatore e il laser

e quattro dozzine di fori, due ore al telefono con un tale del Colorado, e tre ore

per trovare un disco vocabolario in grado di tradurre il russo tecnico vecchio di

otto anni. Poi i caratteri alfanumerici in cirillico cominciarono a scorrere sullo

schermo, trasformandosi in inglese verso la metà. C'erano un sacco di lacune

nella lettura, dove il lessico che mi aveva fornito il mio uomo nel Colorado si

imbatteva in acronimi militari, ma riuscii a farmi un'idea di quello che avevo

comprato da Finn. Mi sentivo come un teppista che fosse uscito per comprare un

coltello a serramanico e fosse tornato a casa con una piccola bomba a neutroni.

“Fregato un'altra volta” pensai. “Che te ne fai di una bomba a neutroni in una

rissa da strada?” La cosa sotto la calotta era completamente fuori dal mio giro.

Non sapevo neppure dove scaricarla, dove cercare un compratore. Qualcuno

l'aveva saputo, ma era morto; qualcuno con un orologio Porsche e un falso

passaporto belga, ma io non avevo mai cercato di muovermi in quelle sfere. I

rapinatori di periferia di Finn avevano fatto fuori qualcuno con dei contatti

molto particolari.

Il programma nella morsa da gioielliere era un rompi-ICE militare russo, un

programma killer.

Era l'alba quando Bobby rientrò, solo. Io mi ero addormentato con un

sacchetto di sandwich sulle gambe.

— Vuoi mangiare? — gli chiesi, non ancora ben sveglio porgendogli i

sandwich. Avevo sognato il programma, le sue ondate di voraci sistemi

sabotatori e subprogrammi mimetici, e nel sogno era una specie di animale,

informe e fluido.

Lui scostò con una mano il sacchetto, mentre si dirigeva verso la consolle e

schiacciava il pulsante di accensione. Lo schermo si illuminò con lo schema

intricato che avevo visto nel pomeriggio. Mi fregai gli occhi con la sinistra; è una

cosa che non posso fare con la destra. Mi ero addormentato mentre cercavo di

decidere se dovevo dirgli del programma. Forse dovevo cercare di venderlo da

solo, tenermi i soldi, andare da qualche parte, chiedere a Rikki di venire con me.

— Di chi è? — chiesi.

— Lui era lì in piedi, in una tuta da ginnastica nera, una vecchia giacca di pelle

gettata sulle spalle come un mantello. Non si radeva da qualche giorno, e la sua

faccia sembrava più magra del solito.

— È di Chrome — disse.

Il mio braccio ebbe una convulsione, cominciò a ticchettare la paura traslata ai

mioelettrici attraverso gli spinotti di carbonio. Feci cadere i sandwich; germogli

flosci e formaggio giallo chiaro si sparsero sul pavimento di legno sporco.

— Sei fuori di cervello — dissi.

— No — disse lui. — Credi che se ne sia accorta? Impossibile. Saremmo già

morti. Mi sono collegato attraverso un sistema di noleggio di Mombasa, sotto

tripla copertura, e un satellite di comunicazione algerino. Si è accorta che

qualcuno la spiava, ma non ha potuto rintracciarmi.

Se Chrome aveva identificato la persona che aveva toccato il suo ICE eravamo

spacciati. Ma probabilmente lui aveva ragione, altrimenti mi avrebbe fatto fuori

mentre tornavo da New York. — Ma perché lei, Bobby? Dammi una sola buona

ragione. .

Chrome: l'avevo vista cinque o sei volte al Gentleman Loser. Forse era venuta a

osservare noi poveracci o a rendersi conto della triste condizione umana, una

condizione a cui lei non aspirava minimamente. Un faccino dolce a forma di

cuore, che incorniciava il paio di occhi più cattivi che si possano immaginare.

Sembrava una quattordicenne, ed era così da sempre. Aveva il metabolismo

modificato da massicce dosi di sieri e ormoni. Era uno dei tipi meno

raccomandabili che mai fossero usciti dai bassifondi, ma non apparteneva più ai

bassifondi. Era una dei Ragazzi, Chrome: un membro di rilievo della consociata

locale della Banda. Si diceva che avesse cominciato come spacciatrice, quando gli

ormoni pituitari sintetici erano ancora vietati. Ma non aveva dovuto vendere

ormoni a lungo. Adesso possedeva la Casa delle Luci Blu.

— Tu sei matto da legare, Quine. Dammi solo una buona ragione per avere

quella roba sullo schermo. Dovresti farla sparire, e subito, chiaro?

— Al Loser si dicono certe cose — fece lui togliendosi la giacca di pelle. —

Cose su Black Myron e Crow Jane. Jane, che sa tutto dei giri porno, dice di sapere

dove vanno a finire i soldi. E secondo lei è Chrome che controlla la Casa delle

Luci Blu, non è solo un prestanome per i Ragazzi.

— I Ragazzi, Bobby — dissi io — sono la parola d'ordine da queste parti.

Riesci ancora a capirlo? Non ci si immischia negli affari dei Ragazzi, ricordi? E

per questo che siamo ancora vivi.

— È per questo che siamo ancora poveri, socio. — Si sedette sulla poltroncina

girevole davanti alla consolle, abbassò la cerniera della tuta e si grattò il petto

magro e bianco. — Ma forse ancora per poco.

— Secondo me questa società si è appena sciolta, e per sempre.

— Allora lui mi sorrise. Era un sorriso folle, feroce e concentrato, e io capii che

in quel momento non gli importava niente di morire.

— Senti — dissi — ho qualche soldo da parte. Perché non prendi la

metropolitana fino a Miami, e te ne vai a Montego Bay. Hai bisogno di riposo. Hai

bisogno di rimetterti in sesto.

— Jack — disse lui, schiacciando un bottone sulla tastiera — io non sono mai

stato così in sesto come adesso. — Il tappeto da preghiera fluorescente sullo

schermo ondeggiò e si mosse, mentre si inseriva un programma di animazione, e

le linee dell'ICE si intrecciavano con ipnotica frequenza in un mandala vivente.

Bobby batté altri tasti e il movimento rallentò, il disegno si sciolse, divenne un

po' meno complesso, risolvendosi in un'alternanza fra due configurazioni

separate. Un lavoro di prima classe: non credevo che fosse ancora così bravo. —

Adesso — disse. — Vedi? Aspetta. Ecco. Ancora. Ancora. È facile lasciarselo

sfuggire. Si inserisce ogni ora e venti minuti, con un segnale al loro satellite di

comunicazione. Potremmo viverci per un anno, con quello che gli paga di

interessi passivi.

— Quale satellite?

— Zurigo. I suoi banchieri. Questo è il suo deposito bancario, Jack. È qui che

vanno i soldi. Crow Jane aveva ragione.

Io rimasi lì come una statua. Il mio braccio dimenticò di reagire.

— Be', cosa hai combinato a New York, socio? Hai trovato qualcosa che mi

possa servire per tagliare quell'ICE? Avremo bisogno di tutto quello su cui

potremo mettere le mani.

— Io tenni gli occhi fissi sui suoi, sforzandomi di non guardare il

manipolatore, la morsa da gioielliere. Il programma russo era lì, sotto la calotta

antipolvere.

Il jolly. Il colpo di fortuna.

— Dov'è Rikki? — gli chiesi, avvicinandomi alla consolle facendo finta di

studiare il disegno in movimento sullo schermo.

— Da degli amici suoi. — Alzò le spalle. — Ragazzi, tutti maniaci del simstim.

— Fece un sorriso assente. — Lo faccio per lei.

— Esco e ci penso, Bobby. Se vuoi che torni, tieni le mani lontano da quel

tavolo.

— Lo faccio per lei — disse mentre la porta si chiudeva alle mie spalle. — Tu

lo sai.

Stavamo scendendo. Il programma come un carrello sulle montagne russe,

attraverso un labirinto di pareti d'ombra che si andavano sfilacciando, grigi

spazi di cattedrale fra le torri luminose. A rotta di collo.

ICE nero. Non pensarci. ICE nero.

Si sentivano troppe storie al Gentleman Loser; l'ICE nero fa parte delle

leggende. ICE che uccide. Illegale, certo, ma chi lavora legalmente nel nostro

giro? Una specie di arma a risposta neurale, e si entra in contatto con essa solo

una volta. Come un Verbo mostruoso che divora la mente dall'interno. Come uno

spasmo epilettico che prosegue e prosegue, finché non resta nulla. . E ci stiamo

tuffando verso il pavimento del castello d'ombra di Chrome.

Cercando di prepararmi all'improvviso arresto del respiro, la nausea, il

rilassamento finale dei nervi. Paura di quel Verbo gelido in attesa, laggiù nel

buio.

Andai a cercare Rikki e la trovai in un caffè, insieme a un ragazzo con occhi

Sendai, le linee di sutura non ancora guarite che si irradiavano dalle orbite

illividite. C'era un dépliant in carta patinata aperto sul tavolo, con Tally Isham

che sorrideva da una dozzina di fotografie. La Ragazza con gli Occhi Zeiss Ikon.

La sua piccola piastra simstim era una delle cose che avevo messo sotto il tavolo

la sera prima, quella che le avevo aggiustato il giorno dopo averla incontrata la

prima volta. Passava delle ore attaccata a quell'apparecchio, la striscia di

contatto attorno alla testa come una tiara in plastica grigia. Tally Isham era la

sua preferita, e con la striscia di plastica lei viveva in un altro mondo, nel

sensorio registrato della più grande stella del simstim. Stimoli simulati: il mondo

(o almeno le sue parti più interessanti) come veniva percepito da Tally Isham.

Tally guidava un Fokker nero a effetto-suolo sulle cime delle mesas dell'Arizona.

Tally si tuffava nelle riserve delle isole Truk. Tally partecipava alle feste dei

super-ricchi su isole greche private, nella purezza mozzafiato di quei piccoli

porti bianchi all'alba.

In effetti assomigliava molto a Tally: la stessa carnagione gli stessi zigomi.

Secondo me la bocca di Rikki era più ferma. Più impertinente. Lei non voleva

essere Tally Isham ma desiderava quel lavoro. Era la sua ambizione: entrare nel

simstim. Bobby ne rideva. Ma lei me ne aveva parlato. «Come starei con un paio

di questi?» mi aveva chiesto, sollevando una pagina con un primo piano, gli Zeiss

Ikon azzurri di Tally Isham all'altezza dei suoi occhi ambra-castano. Si era fatta

operare due volte le cornee, ma non era arrivata a dieci decimi, perciò voleva gli

Ikon. La marca delle dive. Molto costosi.

— Stai sempre pensando agli occhi? — chiesi sedendomi.

— Tigre se ne è appena fatti un paio — disse lei. Pensai che aveva un'aria

stanca.

Tigre era così soddisfatto dei suoi Sendai che non poté fare a meno di

sorridere ma dubitavo che altrimenti avrebbe sorriso. Aveva quel tipo di

bellezza uniforme che si acquisisce dopo la settima visita ad una boutique

chirurgica, probabilmente avrebbe passato il resto della sua vita a cercare di

assomigliare vagamente ai vari idoli stagionali dei media: non una copia troppo

evidente, ma neppure qualcosa di originale.

— Sendai, vero? — Sorrisi a mia volta.

Lui annuì. Lo guardai mentre cercava di lanciarmi quella che secondo lui era

un'occhiata professionale simstim. Faceva finta di registrare. Pensai che

indugiasse troppo sul mio braccio. — Sono eccezionali sulle periferiche, quando i

muscoli saranno guariti — disse, e vidi con quanta cautela allungava la mano per

prendere la tazza del caffè. Gli occhi Sendai sono noti per i difetti di percezione

della profondità di campo e per le controversie sull'assicurazione, fra le altre

cose.

— Tigre parte per Hollywood domattina.

— Poi forse Chiba City, giusto? — Gli sorrisi. Lui non rispose al sorriso. — Hai

un'offerta, Tigre? Conosci un agente?

— È solo per dare un'occhiata in giro — disse lui a bassa voce. Poi si alzò e se

ne andò. Rivolse un breve saluto a Rikki, ma non a me.

— I nervi ottici di quel ragazzo potrebbero deteriorarsi nel giro di sei mesi. Lo

sai Rikki? Quei Sendai sono illegali in Inghilterra, in Danimarca, in un sacco di

altri posti. Non si possono sostituire i nervi.

— Ehi, Jack, niente prediche. — Mi rubò un croissant e mordicchiò una delle

punte.

— Credevo di essere il tuo consigliere, bambina.

— Sì, certo. Be', Tigre non sarà troppo sveglio, ma tutti sanno dei Sendai. È il

massimo che può permettersi. Corre il rischio. Se trova lavoro, potrà sostituirli.

— Con questi? — Battei il dito sul dépliant Zeiss. — Ci vogliono un sacco di

soldi, Rikki. Tu non sei così scema da correre un rischio del genere.

Lei annuì. — Voglio gli Ikon.

— Se vai da Bobby, digli di starsene tranquillo finché non mi faccio vivo.

— Va bene. Affari?

Io bevvi il caffè e lei si mangiò tutti e due i miei croissant. Poi l'accompagnai

da Bobby. Feci quindici chiamate, ognuna da un diverso telefono pubblico.

Un lavoro folle.

In tutto, ci vollero sei settimane per preparare l'attacco, sei settimane in cui

Bobby non faceva che dirmi quanto l'amava. Io lavoravo ancora più sodo,

cercando di non ascoltarlo. La maggior parte erano chiamate per telefono. I miei

quindici iniziali, e molto obliqui, tentativi parvero dare origine ciascuno ad altre

quindici chiamate. Eravamo in cerca di un certo servizio che entrambi

consideravamo come parte essenziale dell'economia clandestina del mondo, ma

che probabilmente non aveva mai più di cinque clienti contemporaneamente, e

che non si faceva mai pubblicità. Cercavamo il ricettatore più grosso del mondo,

un riciclatore di denaro sporco capace di ripulire un trasferimento in contanti di

un milione di dollari e dimenticarsene subito dopo. Tutte quelle chiamate furono

una perdita di tempo, alla fin fine, perché fu Finn a mettermi sulla strada giusta.

Ero andato a New York per comprare una nuova scatola nera, perché

rischiavamo di restare senza un soldo con tutte quelle chiamate.

Gli sottoposi il problema nella maniera più ipotetica possibile.

— Macao — disse lui.

— Macao?

— La famiglia Long Hum. Agenti di cambio.

Aveva perfino il numero. Se si cerca un ricettatore, basta chiedere a un altro

ricettatore.

I Long Hum erano così imperscrutabili da rendere la mia concezione di

approccio indiretto simile a un attacco nucleare in forze. Bobby dovette fare due

viaggi in navetta a Hong Kong per sistemare la faccenda. Stavamo finendo i

capitali, e in fretta. Ancora non so perché avessi deciso di starci, tanto per

cominciare; avevo paura di Chrome, e non ero poi così ansioso di diventare

ricco. Cercavo di dirmi che era una buona idea bruciare la Casa delle Luci Blu,

perché era un posto disgustoso, ma non riuscivo a mandarla giù. Non mi piaceva

la Casa delle Luci Blu, perché una volta ci avevo passato una serata

assolutamente deprimente, ma questa non era una giustificazione per mettersi

alla caccia di Chrome. In effetti, mi ero mezzo convinto che saremmo morti nel

tentativo. Anche con quel programma killer, non si poteva dire che le probabilità

fossero in nostro favore.

Bobby era impegnatissimo a scrivere una serie comandi che avremmo dovuto

infilare al centro del computer di Chrome. Questo sarebbe stato compito mio,

perché Bobby avrebbe avuto il suo da fare per impedire al programma russo di

buttarsi dritto addosso alla preda. Era troppo complesso per riscriverlo, perciò

intendeva solo trattenerlo per i due secondi che mi servivano.

Presi accordi con un gorilla da strada di nome Miles. Avrebbe dovuto seguire

Rikki la notte del colpo, senza perderla di vista, e telefonarmi ad una certa ora.

Se non c'ero, o non rispondevo in un certo modo, avrebbe dovuto prenderla e

metterla sul primo convoglio sotterraneo in partenza. Gli diedi una busta per lei,

con del denaro e un biglietto.

Bobby non aveva pensato molto a come si sarebbero messe le cose per lei se

facevamo cilecca. Continuava a ripetermi quanto l'amava, dove sarebbero andati

insieme, come avrebbero speso i soldi.

— Per prima cosa comprale un paio di Ikon. È quello che vuole. Fa sul serio

con questa idea del simstim.

— Ehi — disse lui, alzando gli occhi dalla tastiera — non avrà più bisogno di

lavorare. Ce la faremo, Jack. Lei è la mia fortuna. Non dovrà lavorare mai più.

— La tua fortuna — dissi io. Non ero felice. Non riuscivo a ricordare quando

ero stato felice. — Hai visto dov'è finita la tua fortuna, ultimamente?

Lui no, e neppure io. Eravamo stati tutti e due troppo occupati. Mi mancava.

Sentirne la mancanza mi ricordava quell'unica sera alla Casa delle Luci Blu,

perché c'ero andato a causa di un'altra. Mi ero ubriacato, tanto per cominciare,

poi avevo cominciato a farmi delle inalazioni di Vasopressina. Se una ragazza ti

ha appena piantato, l'alcool e la Vasopressina sono il massimo in fatto di

farmacologia masochista: il primo fa venir voglia di piangere, la seconda fa

ricordare. La Vasopressina è usata in medicina per curare l'amnesia senile, ma

nei bassifondi hanno fatto presto a trovare altri impieghi. Così mi ero comprato

una replica ad altissima intensità di una brutta storia d'amore; il guaio è che con

la parte buona si prende anche quella cattiva. Uno cerca grandi passioni ed estasi

animalesche e oltre a questo ottiene quello che ha detto lui, e quello che ha detto

lei, e come se n'è andata senza neppure voltarsi. Non ricordo di aver deciso di

andare alle Luci Blu, o come ci sia arrivato. Corridoi silenziosi e quella cascata

decorativa, piuttosto volgare, che gorgoglia da qualche parte, o forse è solo un

ologramma. Avevo un sacco di soldi quella sera; qualcuno aveva dato a Bobby un

bel malloppo per aprire una finestra di tre secondi nell'ICE di qualcun altro.

Non credo che a quelli di guardia alla porta piacesse molto il mio aspetto, ma

immagino che i miei soldi piacessero di più. Bevvi ancora, dopo aver fatto quello

che ero venuto a fare. Poi feci una battuta col barman sui necrofili in incognito,

che non fu accolta troppo bene. Poi c'era un tipo grande e grosso che insisteva a

chiamarmi eroe di guerra, e non mi piaceva. Credo di avergli fatto vedere un paio

di giochini col braccio, prima dell'ora di chiusura, e mi ero risvegliato due giorni

dopo in un modulo medico da qualche altra parte. Un posto da quattro soldi, non

c'era neanche lo spazio per impiccarsi. E seduto su quello stretto materasso di

spugna, avevo pianto.

C'è di peggio che ritrovarsi soli. Ma quello che vendono alla Casa delle Luci Blu

è così diffuso da essere quasi legale.

Nel cuore del buio, nel centro immobile, i sistemi sabotatori fanno a brandelli

il buio con mulinelli di luce, rasoi trasparenti che si staccano ruotando da noi;

siamo sospesi al centro di un'esplosione silenziosa, al rallentatore, con

frammenti di ICE che cadono per sempre, e la voce di Bobby mi giunge da anni

luce di vuoto elettronico. .

— Brucia quella troia, Jack. Non riesco più a trattenerlo. .

Il programma russo si solleva fra torri di dati, nasconde i colori da stanza dei

giochi. E io inserisco i comandi preparati da Bobby nel centro del freddo cuore di

Chrome. La trasmissione ultrarapida scatta, un impulso di informazioni

condensate scagliato verso l'alto, oltre la torre di buio che si sta addensando, il

programma russo, mentre Bobby lotta per controllare quel secondo cruciale. Un

braccio informe di oscurità si allunga dalla torre di buio, troppo tardi. Ce

l'abbiamo fatta.

La matrice si piega attorno a me come un origami.

E la mansarda puzza di sudore e circuiti bruciati. Mi è sembrato di aver sentito

Chrome urlare, un suono duro e metallico, ma non è possibile.

Bobby rideva, con le lacrime agli occhi. Il contaminuti all'angolo dello

schermo, diceva 07:24:05. Ci avevamo messo meno di otto minuti per bruciare

Chrome.

E vidi che il programma russo si era fuso nella pressa. Avevamo passato il

grosso del deposito di Chrome sulla banca di Zurigo a una decina di associazioni

caritatevoli sparse nel mondo. Era troppo grosso per trasferirlo, e sapevamo che

dovevamo ridurla sul lastrico, bruciarla completamente, altrimenti sarebbe

venuta a cercarci. Tenemmo per noi meno del dieci per cento e lo facemmo

passare attraverso la ditta Long Hum, a Macao. Loro trattennero il sessanta per

cento e ci rispedirono quello che rimaneva attraverso il settore più

irraggiungibile della borsa di Hong Kong. Ci volle un'ora prima che i soldi

cominciassero a raggiungere i due conti correnti che avevamo aperto a Zurigo.

Osservai gli zeri accumularsi dietro un numero sul monitor. Ero ricco. Poi

squillò il telefono. Era Miles. Per poco non sbagliai la frase in codice.

— Ehi, Jack, non so, ma. . chi è questa ragazza? È successa una cosa strana. .

— Cosa? Dimmi.

— Le sono stato sempre dietro, come mi hai detto, senza farmi vedere. È stata

per un po' al Loser , poi ha preso la metropolitana. È andata alla Casa delle Luci

Blu. .

— Cosa?

— La porta laterale. Riservata al personale. Non potevo superare le loro

guardie.

— È lì adesso?

— No, l'ho persa. È successo il pandemonio, laggiù. Sembra che le luci Blu

abbiano chiuso bottega, per sempre. Sette tipi di allarme che suonavano, tutti

che correvano, la polizia in tenuta antisommossa. . Adesso c'è un sacco di gente,

quelli delle assicurazioni, agenti immobiliari, furgoni con la targa del comune. .

— Miles, dov'è andata?

— L'ho persa, Jack.

— Senti, Miles, tieniti la busta e i soldi, va bene?

— Sul serio? Senti, mi dispiace. Io. .

Riappesi.

— Vedrai quando glielo diciamo — stava dicendo Bobby, fregandosi un

asciugamano sul petto nudo.

— Diglielo tu, cowboy. Io vado a farmi una passeggiata.

Così uscii nella notte fluorescente di neon e lasciai che la folla mi trasportasse,

camminando alla cieca, imponendomi di essere solo un segmento di

quell'organismo di massa, uno dei tanti frammenti di coscienza alla deriva sotto

le cupole geodesiche. Non pensavo; mettevo un piede davanti all'altro. Ma dopo

un po' pensai, e tutto fu chiaro. Le servivano i soldi.

Pensai anche a Chrome. Che l'avevamo uccisa, assassinata, esattamente come

se le avessimo tagliato la gola. La notte che mi trascinava lungo i viali e le piazze

in quel momento le stava dando la caccia, e lei non aveva nessun posto dove

andare. Quanti nemici doveva avere in questa folla soltanto? Quanti si sarebbero

mossi, adesso che non erano più trattenuti dalla paura dei suoi soldi? Le

avevamo tolto tutto quello che possedeva. Era tornata sulla strada. Dubitavo che

sarebbe sopravvissuta fino all'alba.

Alla fine mi ricordai del caffè, quello dove avevo incontrato Tigre. I suoi

occhiali da sole dicevano tutta la storia: lenti grandi e nere, con una macchia

rivelatrice di fondotinta all'angolo di una lente. — Ciao Rikki — dissi, ed ero

preparato quando se li tolse. Azzurri, azzurro come Tally Isham. Quell'azzurro

trasparente per cui sono famosi, con il marchio “Zeiss ikon” intorno a ciascuna

iride, in piccole lettere maiuscole, sospese come pagliuzze d'oro.

— Molto belli — dissi. Il fondotinta copriva i lividi. Nessuna cicatrice, per un

lavoro del genere. — Hai fatto i soldi.

— Sì. — Ebbe un brivido. — Ma non ne farò altri. Non in quel modo.

— Credo che quel posto abbia chiuso.

— Oh. — Il volto le rimase inespressivo. I nuovi occhi erano immobili e molto

profondi.

— Non ha importanza. Bobby ti aspetta. Abbiamo appena fatto un grosso

colpo.

— No. Devo andare. Immagino che non capirebbe, ma devo andare.

Annuii, guardando il mio braccio che si alzava per prenderle la mano;

sembrava non fosse una parte di me, ma lei me la strinse come se lo fosse.

— Ho un biglietto di sola andata per Hollywood. Tigre conosce della gente con

cui posso stare. Forse arriverò anche a Chiba City. Aveva ragione su Bobby.

Tornai indietro con lei. Non capì. Ma per Bobby lei era già servita allo scopo, e

volevo dirle di non sentirsi addolorata per lui, perché vedevo che lo era. Non

volle nemmeno accompagnarla alla porta, dopo che ebbe fatto i bagagli. Io

appoggiai le valige nel corridoio e la baciai, rovinandole il fondo tinta, e qualcosa

si mosse dentro di me, come quel programma killer si era sollevato sui dati di

Chrome. Un arrestarsi improvviso del respiro, in un posto dove non ci sono

parole. Ma lei aveva un aereo da prendere. Bobby era abbandonato sulla

poltroncina girevole di fronte al monitor, a guardare gli zeri del suo conto in

banca. Aveva gli occhiali scuri, e sapevo che quella sera sarebbe stato al

Gentleman Loser , scrutando ansiosamente i segni del cielo, alla ricerca di

qualcuno che gli dicesse come sarebbe stata la sua nuova vita. Non potevo

immaginarmela molto diversa. Più comoda, ma avrebbe sempre e

continuamente aspettato la carta successiva.

Cercai di non immaginarmela nella Casa delle Luci Blu, mentre lavorava a

turni di tre ore in qualcosa di simile al sonno REM, mentre il suo corpo e i riflessi

condizionati si occupavano del lavoro. I clienti non si sarebbero mai lamentati

che facesse finta, perché gli orgasmi erano veri. Ma lei li avvertiva, sempre che li

avvertisse, solo come pallide fiammate argentee ai bordi del sonno. Proprio così,

è tanto diffuso da essere quasi legale. I clienti sono combattuti fra il bisogno di

qualcuno e il desiderio di essere soli, il che è probabilmente sempre stata

l'essenza di quel gioco, ancora prima che la neuroelettronica rendesse possibile

avere le due cose contemporaneamente.

Presi il telefono e feci il numero della compagnia aerea. Diedi il suo vero nome

e il numero del volo. — Ha cambiato destinazione — dissi. — Chiba City. Esatto.

Giappone. — Infilai la mia carta di credito nella fessura e battei il numero. —

Prima classe. — Un ronzio lontano mentre controllavano il mio conto corrente.

— Andata e ritorno.

Ma immagino che abbia incassato il prezzo del biglietto di ritorno oppure che

non ne abbia avuto bisogno, perché non è tornata. E qualche volta, a notte tarda,

mi capita di passare accanto a una vetrina con manifesti di dive del simstim, con

tutti quei bellissimi occhi identici che mi guardano da facce quasi identiche, e

qualche volta gli occhi sono i suoi, ma nessuna delle facce lo è, mai, e io la vedo

lontano, ai bordi di questo agglomerato di notti e di città, che mi saluta con la

mano.