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Johnny Mnemonico
(Johnny Mnemonic, 1981)
Misi il fucile da caccia in una borsa Adidas e la imbottii con quattro paia di
calze da tennis. Tutto il contrario del mio stile abituale, ma era proprio questo il
mio scopo: se ti credono rozzo, fai il raffinato; se ti credono raffinato, mostrati
rozzo. Io sono molto raffinato. Perciò decisi di sembrare il più rozzo possibile. Di
questi tempi, poi, uno deve essere piuttosto raffinato prima di poter anche
aspirare alla grossolanità. Mi ero dovuto fabbricare tutte e due le cartucce
calibro 12 a partire da un blocco di ottone, su un tornio, e caricarle
personalmente; avevo dovuto scovare un vecchio microfilm con le istruzioni per
le cartucce da caricare a mano; avevo dovuto costruire un meccanismo a leva
per collocare il fulminante. . Una faccenda piuttosto complicata. Ma sapevo che
avrebbe funzionato. L'incontro era fissato per le 23 al Drome , ma scesi tre
fermate di metropolitana dopo quella più vicina, e tornai indietro a piedi.
Procedura impeccabile.
Mi controllai nella fiancata cromata di un chiosco del caffè: tipica faccia
caucasica dai lineamenti marcati, chioma dritta e nera. Le ragazze all' Under the
Knife andavano matte per Sony Mao, e avevo dovuto faticare per impedirgli di
aggiungere un tocco chic di pieghe epicantiche. Probabilmente non sarebbe
servito a ingannare Ralfi Face, ma poteva farmi arrivare vicino al suo tavolo. Il
Drome è costituito da un'unica stanza stretta, con un bancone lungo uno dei lati
e tavoli lungo l'altro, pieno di papponi, allenatori di boxe e un arcano
assortimento di trafficanti. Quella sera alla porta c'erano le Magnetic Dog Sisters,
e non mi sorrideva l'idea di dover uscire in mezzo a loro, se le cose si mettevano
male. Erano alte due metri, sottili come levrieri. Una era bianca e l'altra nera, ma
a parte questo erano identiche quanto poteva renderle la chirurgia cosmetica.
Erano amanti da anni, e sapevano essere degli ossi duri in combattimento. Non
ero mai riuscito a capire quale delle due fosse stata originariamente maschio.
Ralfi era seduto al suo solito tavolo. E mi doveva un sacco di soldi. Avevo
centinaia di megabyte riposti nella memoria, in modalità trasmissione
automatica; informazioni a cui non potevo accedere coscientemente. Era stato
Ralfi a mettercele. Ma non era venuto a riprendersele. Soltanto Ralfi poteva
recuperare i dati, mediante una frase in codice che solo lui conosceva. Già i miei
servizi non si possono considerare a buon mercato, ma la mia tariffa sul tempo
supplementare è astronomica. E Ralfi era stato molto tirchio. Poi avevo sentito
che Ralfi Face cercava qualcuno per farmi fuori. Così avevo organizzato un
incontro al Drome , ma sotto il nome di Edward Bax, importatore clandestino, già
di Rio e Pechino. Il Drome puzzava di affari: un odore acuto e metallico di
tensione nervosa. Gorilla sparsi fra la folla mettevano in mostra la loro
mercanzia con sorrisi freddi e sottili, alcuni talmente appesantiti da
sovrastrutture di trapianti muscolari che i loro tratti non erano più neppure
umani.
Permesso. Permesso, ragazzi. È solo Eddie Bax, Fast Eddie l'importatore. Con
la sua borsa da ginnastica, professionalmente anonima, e vi prego di non far caso
a quella fessura grande abbastanza per infilarci dentro la mano.
Ralfi non era solo. Ottanta chili di gorilla biondo californiano erano appollaiati
sulla sedia accanto alla sua. Sembrava che avesse scritto addosso “arti marziali”.
Eddie Bax, veloce come il lampo, si trovò sulla sedia di fronte a loro prima che
il gorilla potesse staccare le mani dal tavolo. — Sei cintura nera? — chiesi
prontamente. Lui annuì, mentre i suoi occhi azzurri correvano automaticamente
dai miei occhi alle mie mani, e viceversa. — Anch'io — dissi. — La mia ce l'ho
qui. — E infilai la mano nella borsa, togliendo la sicura. Clic. — Calibro 12,
doppia canna, con i grilletti collegati.
— È un fucile — disse Ralfi, appoggiando una mano grassoccia sul petto di
nylon azzurro teso del suo uomo. — Johnny ha nella borsa una vecchia arma da
fuoco. — Tanti saluti a Edward Bax. Immagino che sia sempre stato Ralfi Questo
o Quell'altro, ma doveva il suo soprannome a una singolare vanità. Su un corpo
che assomigliava a una pera troppo matura, indossava da vent'anni la faccia un
tempo famosa di Christian White il Christian White della Aryan Reggae Band, il
Sony Mao della sua generazione, il campione del rock razzista. Sono un mago per
i dettagli.
Christian White: classica faccia pop, con i muscoli ben definiti di un cantante,
gli zigomi cesellati. Angelica sotto una certa luce, bella e depravata sotto un'altra.
Ma gli occhi di Ralfi vivevano dietro quella faccia, ed erano piccoli, freddi e neri.
— Per favore — disse — vediamo di sistemare questa faccenda da uomini
d'affari. — Aveva la voce segnata da un'accattivante sincerità, e gli angoli della
sua bellissima bocca alla Christian White erano sempre umidi. — Il nostro amico
Lewis — accennò verso il gorilla — è un perfetto imbecille. — Lewis rimase
impassibile: sembrava costruito con una scatola di montaggio. — Tu non sei un
imbecille, Johnny.
— Sicuro che lo sono, Ralfi: un imbecille pieno zeppo di trapianti dove puoi
buttare i tuoi panni sporchi mentre vai in giro a cercare qualcuno che mi
ammazzi. Vista la situazione dalla mia parte della barricata, Ralfi, direi che mi
devi qualche spiegazione.
— Si tratta di questi ultimi articoli, Johnny. — Tirò un profondo respiro. — Nel
mio ruolo di mediatore. .
— Di ricettatore — lo corressi.
— Di mediatore, sono molto cauto con le mie fonti.
— Compri solo da quelli che rubano bene. Ho capito.
Lui sospirò di nuovo. — Cerco — disse stancamente — di non comprare dagli
sciocchi. Questa volta ho paura di averlo fatto. — Il terzo sospiro fu il segnale a
Lewis di azionare il distruttore neurale che avevano attaccato sotto il mio lato
del tavolo. Cercai con tutte le mie forze di contrarre l'indice della destra, ma mi
sembrava che non fosse più collegato a me. Sentivo il metallo del fucile e il
nastro imbottito che avevo avvolto attorno al calcio tozzo, ma le mie mani erano
cera fredda, lontane e inerti. Speravo che Lewis fosse davvero un imbecille, così
stupido da venire a prendere la borsa e tirarmi il dito irrigidito, ma non lo era.
— Siamo stati molto preoccupati per te, Johnny. Molto preoccupati. Vedi,
quella roba che hai dentro è proprietà della Yakuza. Gliel'ha rubata uno stupido,
Johnny. Uno stupido morto. Lewis ridacchiò.
A quel punto era tutto chiaro, terribilmente chiaro. Mi sembrava di avere la
testa piena di sacchi di sabbia bagnata. Ammazzare non era nello stile di Ralfi.
Neanche Lewis era nello stile di Ralfi. Ma si era trovato incastrato fra i Figli del
Crisantemo Neon e qualcosa che apparteneva a loro. . O più probabilmente
qualcosa di loro che apparteneva a qualcun altro. Ralfi naturalmente poteva
usare la sua frase in codice per farmi passare in modalità trasmissione
automatica, e io avrei sputato fuori tutto il loro programma senza poi
ricordarmene una sola virgola. Per un ricettatore come Ralfi in genere avrebbe
dovuto bastare. Ma non per la Yakuza. Tanto per cominciare, dovevano aver
sentito parlare degli squid, e l'idea che qualcuno potesse prelevare dalla mia
mente quelle tracce deboli ma permanenti del loro programma non doveva
piacergli troppo. Io degli squid non ne sapevo molto, ma avevo sentito delle
storie, e mi ero imposto di non ripeterle mai ai miei clienti. No, alla Yakuza non
sarebbe piaciuto; assomigliava troppo a una prova. Quelli della Yakuza non
erano diventati quello che erano lasciando in giro prove. O lasciandole vive.
Lewis stava sogghignando. Penso che stesse mettendo a fuoco un punto
appena dietro la mia fronte, immaginando come arrivarci con le maniere forti.
— Ehi — disse una voce bassa e femminile, da dietro la mia spalla destra. —
Voi cowboy non avete l'aria di divertirvi molto.
— Fila, troia — disse Lewis, con la faccia abbronzata immobile. Ralfi non
aveva espressione.
— Su, allegri. Volete comprare della buona base? — Prese una sedia e si
sedette prima che qualcuno potesse fermarla. Era appena all'interno del mio
limitato campo visivo: una ragazza magra con occhiali a specchio. I capelli scuri e
scomposti. — Ottomila al grammo. Lewis sbuffò esasperato e cercò di mandarla
via con uno schiaffo. Non so come, ma non riuscì a colpirla. La mano della
ragazza si alzò e parve sfiorare il suo polso, mentre passava. Uno spruzzo di
sangue rosso vivo cadde sul tavolo. Lewis si strinse il polso, le nocche bianche, il
sangue che gli colava fra le dita.
Ma la mano della ragazza non era vuota?
Il gorilla avrebbe dovuto farsi ricucire il tendine. Si alzò adagio, senza spostare
la sedia. La sedia cadde all'indietro, e lui uscì dal mio campo visivo senza una
parola.
— Dovrebbe farsi guardare da un medico — disse lei. — È un brutto taglio.
— Non hai neanche idea — disse Ralfi, con voce improvvisamente molto
stanca — del casino in cui ti sei cacciata.
— Davvero? Un mistero! Vado pazza per i misteri. Per esempio, perché il
vostro amico qui è così tranquillo come una statua. O a cosa serve questa roba.
— E alzò la piccola unità di controllo che in qualche modo era riuscita a togliere
a Lewis. — Ralfi sembrava sconvolto.
— Ti vanno duecentocinquantamila per darmi quella roba e andartene? —
Sollevò la mano grassoccia ad accarezzarsi nervosamente la faccia pallida e
magra.
— Quello che voglio — disse lei, facendo ruotare fra le dita la piccola unità
lucida, — è un lavoro. Un impiego. Il vostro uomo si è fatto male al polso. Ma
duecentocinquantamila possono andare come anticipo.
— Ralfi lasciò andare il respiro in un'esplosione, e cominciò a ridere,
mettendo in mostra dei denti non all'altezza della sua faccia da Christian White.
Poi lei spense il distruttore.
— Due milioni — dissi io.
— Sei il mio tipo — disse lei, e rise. — Che cosa c'è nella borsa?
— Un fucile da caccia.
— Rozzo. — Forse era un complimento.
Ralfi non disse niente.
— Mi chiamo Million. Molly Million. Vogliamo andarcene da qui, capo?
La gente comincia a guardare. — Si alzò. Indossava jeans di pelle color sangue
secco.
E per la prima volta mi accorsi che le lenti a specchio erano un innesto
chirurgico: la superficie d'argento era la prosecuzione degli zigomi alti, e le
sigillava gli occhi nelle orbite. Vidi la mia nuova faccia doppiamente riflessa.
— Io sono Johnny — dissi. — Portiamo con noi il signor Face.
Lui era fuori che ci aspettava. Sembrava il tipico turista: sandali di plastica e
camicia hawaiana con stampato l'ingrandimento del microprocessore più
famoso della sua ditta. Un ometto dall'aria tranquilla, di quelli che finiscono
ubriachi di sake in un bar dove si servono cracker di riso con contorno di alghe.
Aveva l'aria del tipo che canta l'inno della ditta con le lacrime agli occhi, che
stringe sempre la mano al barista. E ruffiani e trafficanti lo lasciavano in pace,
capendo che era un conservatore innato. Non cercava niente di insolito, e se lo
faceva stava attento al portafoglio. Ripensandoci in seguito, mi parve di aver
capito che dovevano avergli amputato un pezzo di pollice sinistro, appena sotto
la prima articolazione, sostituendolo con una protesi, poi avevano praticato un
foro nel moncone e vi avevano inserito un rocchetto con la sua boccola,
modellati da un diamante sintetico Ono-Sendai. Infine vi avevano avvolto tre
metri di filamento monomolecolare. Molly si mise a parlare con le Magnetic Dog
Sisters, permettendomi di far passare Ralfi dalla porta, con la borsa da ginnastica
che gli premeva delicatamente contro il fondo della schiena. Pareva che le
conoscesse. Sentii quella nera ridere.
Alzai gli occhi per un riflesso istintivo, forse perché non sono mai riuscito ad
abituarmi agli archi di luci e alle ombre delle cupole geodesiche più su. Forse fu
questo a salvarmi la vita. Ralfi continuò a camminare, ma non credo che cercasse
di scappare. Credo che ci avesse già rinunciato. Probabilmente aveva idea di
quello che ci aspettava.
Abbassai gli occhi appena in tempo per vederlo esplodere. Riproducendo la
scena in playback si vede Ralfi avanzare, mentre il piccolo turista scivola fuori
dal nulla, sorridendo. Un inchino appena accennato, e il suo pollice sinistro si
stacca. Trucco da prestigiatore. Il pollice rimane sospeso. Fili? Specchi? E Ralfi si
ferma, le spalle rivolte a noi, con scure mezzelune di sudore sotto le ascelle del
suo abito estivo, chiaro. Lo sa. Doveva saperlo. E poi il pollice da prestigiatore,
pesante come piombo, comincia a girare come uno yo-yo e il filo invisibile che lo
unisce alla mano del killer attraversa il cranio di Ralfi appena sopra le
sopracciglia, sale, e scende squarciando diagonalmente il torso gonfio, dalla
spalla alla cassa toracica. Il taglio è così sottile che non scorre sangue finché le
sinapsi non fanno cilecca e i primi tremori consegnano il corpo alla gravità.
Ralfi crollò in una nuvola rosa di liquidi biologici, e le tre sezioni rotolarono
sul marciapiede rivestito di piastrelle. In un silenzio totale.
Sollevai la borsa da ginnastica e contrassi la mano. Il rinculo mi spezzò quasi il
polso.
Probabilmente pioveva. Torrenti d'acqua scendevano dalla falla di una cupola
schizzando sul marciapiede dietro di noi. Ci rannicchiammo nello stretto spazio
fra una boutique chirurgica e un negozio di antiquariato. Lei aveva dato
un'occhiata oltre l'angolo con quei suoi occhi a specchio, riferendomi che c'era
un solo modulo Volks di fronte al Drome , le luci rosse che lampeggiavano.
Stavano raccogliendo Ralfi. Facevano domande.
Io ero ricoperto di peluria bianca bruciacchiata. Le calze da tennis. La borsa da
ginnastica era un polsino stracciato di plastica attorno al mio polso. — Non
capisco come diavolo ho fatto a mancarlo.
— Perché è veloce, molto veloce. — Si strinse le ginocchia, dondolandosi sui
tacchi. — Ha il sistema nervoso iperstimolato. È stato fabbricato su ordinazione.
— Sorrise ed emise uno squittio di piacere. — Farò fuori quel tipo. Questa notte.
È il migliore, il numero uno, l'ultimo grido.
— Quello che farai, per i miei due milioni, è di farmi uscire da questo casino. Il
tuo amico laggiù l'hanno fatto crescere in una vasca di Chiba City. È un assassino
della Yakuza.
— Chiba. Giusto. Vedi, anche Molly è stata a Chiba. — E mi fece vedere le mani,
allargando leggermente le dita. Erano sottili, appuntite, pallidissime contro le
unghie laccate di rosso borgogna. Dieci lame uscirono di scatto dai ricettacoli
dietro le unghie, ciascuna un sottile bisturi a doppio taglio, acciaio azzurrino.
Non ho mai avuto molto a che fare con la Città Oscura. Non c'è nessuno lì che
mi paghi per ricordare. Anzi, c'è un sacco di gente che paga per dimenticare.
Generazioni di cecchini avevano fatto a pezzi le luci al neon, finché le squadre di
manutenzione non avevano gettato la spugna. Anche a mezzogiorno i lampioni
erano macchie nero-fuliggine contro un biancore madreperlaceo.
Dove si può andare quando la più ricca organizzazione criminale del mondo
sta cercando con dita leggere e decise? Dove ci si può nascondere dalla Yakuza,
tanto potente da possedere satelliti di comunicazione propri e almeno tre
navette spaziali? La Yakuza è una vera multinazionale, come l'I.T.T. e l'Ono-
Sendai. Cinquant'anni prima che nascessi, la Yakuza aveva già assorbito le
Triadi, la Mafia e l'Union Corse.
Molly aveva una risposta: basta nascondersi nel Pozzo, nel girone più basso,
dove qualsiasi influenza estranea è subito accolta come una minaccia. Ci si
nasconde nella Città Oscura. Meglio ancora, ci si nasconde “sopra” la Città
Oscura, perché il Pozzo è invertito, e il fondo tocca il cielo, il cielo che la Città
Oscura non vede mai, sudando sotto il suo firmamento di resina acrilica; in alto,
dove i Lo Tek si annidano nel buio come grottesche sculture, sigarette del
mercato nero fra le labbra.
Lei aveva anche un'altra soluzione.
— Allora sei chiuso come un'ostrica, Johnny-san? Non c'è modo di raggiungere
quel programma senza la parola d'ordine? — Mi condusse verso le ombre che ci
attendevano oltre la fermata della metropolitana. Le pareti di cemento erano
ricoperte di graffiti, anni di graffiti, che si intersecavano in un'unica metafora
caotica di rabbia e frustrazione.
— I dati vengono immessi attraverso una serie di microprotesi
controautistiche modificate. — Le snocciolai una versione un po' ebete del mio
discorsetto per i clienti. — Il codice del cliente viene immagazzinato in un chip
speciale; a parte gli squid, di cui noi del mestiere preferiamo non parlare, non c'è
alcun modo per recuperare la frase. Né con le droghe, né con la tortura. Non la
conosco neanche io, non l'ho mai conosciuta.
— Squid? Calamari? Quei molluschi con i tentacoli? — Emergemmo in un
mercato all'aperto, deserto. Figure indistinte ci osservavano da una piazzetta
lercia di teste di pesce e frutta marcia.
— Rilevatori di Superconduttori quantici a interferenza. Li usavano durante la
guerra per scoprire i sottomarini, per individuare i sistemi cibernetici del
nemico.
— Davvero? Roba della Marina? Dell'epoca della guerra? Dici che se avessimo
uno squid potremmo leggere quel tuo chip? — Aveva smesso di camminare, e mi
sentivo i suoi occhi addosso, quei due specchi gemelli.
— Anche i modelli primitivi erano in grado di misurare un campo magnetico
di un miliardesimo della forza geomagnetica; è come sentire un sussurro in uno
stadio di gente urlante. — I poliziotti possono già farlo, con microfoni parabolici
e laser.
— Ma i dati sono lo stesso al sicuro. — Orgoglio professionale. — Nessun
governo permetterebbe ai suoi poliziotti di usare uno squid, neppure ai servizi
segreti. È troppo forte il rischio che vengano usati per spionaggio interno; altro
che Watergate.
— Roba della Marina — disse lei, e il suo sorriso balenò nell'ombra. — Roba
della Marina. Ho un amico da queste parti che era nella Marina, si chiama Jones.
Credo che dovresti conoscerlo. Però è drogato. Dovremo portargli un po' di roba.
— Drogato?
— È un delfino.
Era più di un delfino, ma dal punto di vista di un altro delfino forse poteva
sembrare meno. Lo guardai girare pigramente nella sua vasca di lamiera zincata.
L'acqua traboccò, bagnandomi le scarpe. Era un residuato dell'ultima guerra. Un
cyborg.
Uscì dall'acqua, mostrandoci le piastre incrostate sui fianchi: una specie di
scherzo di natura, e tutta la sua grazia originaria era quasi scomparsa sotto
l'armatura snodata, goffa e preistorica. Due protuberanze deformi, ai lati della
testa contenevano i sensori. Ferite argentee luccicavano sulle zone scoperte
della pelle grigiastra.
Molly fischiò. Jones agitò la coda e l'acqua schizzò fuori dalla vasca.
— Che posto è questo? — C'erano forme vaghe nel buio, catene arrugginite,
altri oggetti coperti da teloni. Sopra il serbatoio era appesa una rozza
intelaiatura di legno con appese file e file di lampadine polverose, come quelle di
un albero di Natale.
— Un luna park con zoo incorporato. “Parlate con la balena da guerra.” Roba
del genere. Sai che balena il nostro Jones..
Jones si sollevò nuovamente, fissandomi con occhi tristi e antichi.
— Come fa a parlare? — D'improvviso ero ansioso di andarmene.
— Questo è il trucco. Di' “ciao”, Jones.
E tutte le lampadine si accesero insieme lampeggiando. Erano rosse, bianche e
azzurre.
RBARBARBA
RBARBARBA
RBARBARBA
RBARBARBA
RBARBARBA
— È bravo coi simboli, capisci, ma il codice è ristretto. Nella Marina l'avevano
collegato a un display audiovisivo. — Prese il piccolo involucro da una tasca
della giacca. — Roba buona, Jones. La vuoi? — Lui si immobilizzò nell'acqua e
cominciò ad affondare. Provai una strana sensazione di panico, sapendo che non
era un pesce e che poteva affogare. — Ci serve la chiave per la banca dati di
Johnny, Jones. Ci serve subito.
Le luci lampeggiarono, poi si spensero.
— Forza, Jones!
A
AAAAAAAAAA
A
A
A
Lampadine azzurre, a forma di croce.
Buio.
— È roba buona! PULITA. Forza, Jones!
BBBBBBBBBBB
BBBBBBBBBBB
BBBBBBBBBBB
BBBBBBBBBBB
Un bagliore bianco al sodio illuminò il viso di Molly, scavando ombre sui suoi
zigomi.
RRRRRRR
RR
RRRRRRRRR
RR
RRRRRRR
I bracci della svastica rossa apparivano distorti sulle lenti d'argento. —
Dagliela — dissi. — Abbiamo la chiave. Ralfi Face. Proprio niente
immaginazione.
Jones sollevò metà del suo corpo corazzato sull'orlo della vasca, e io pensai
che il metallo avrebbe ceduto. Molly gli praticò l'iniezione con una Syrette,
infilando l'ago fra due piastre. Si sentì il sibilo del propellente. Ondate di luce
esplosero sull'intelaiatura di legno, spasmodicamente, poi svanirono.
Lo lasciammo a rotolarsi languidamente nell'acqua scura. Forse sognava la
sua guerra nel Pacifico, le mine cibernetiche che aveva disinnescato infilandosi
delicatamente nei loro circuiti, con lo squid che aveva usato per individuare la
ridicola parola d'ordine di Ralfi nel chip nascosto nella mia testa.
— Posso capire che ci sia stata una svista quando l'hanno dimesso dalla
Marina, lasciandolo andare in giro con quella roba intatta nella testa; ma com'è
possibile che un delfino cibernetico sia diventato eroinomane?
— La guerra — disse lei. — Lo erano tutti. È stata la Marina. Come si può
costringerli a lavorare, altrimenti?
— Non sono sicuro che sia un buon affare — disse il pirata, cercando di
spillarci più soldi. — Le coordinate di un satellite che non è neppure elencato. .
— Se mi fai perdere tempo non ci sarà nessun affare — disse Molly,
appoggiandosi alla scrivania di plastica coperta di sfregi e puntandogli un dito
contro il petto.
— Se volete, potete comprare le vostre microonde da qualche altra parte. —
Era un tipo duro, dietro la sua faccia alla Mao. Nato nella Città Oscura,
probabilmente.
La mano di Molly scivolò veloce davanti alla sua giacca, tagliando di netto un
risvolto senza neppure lasciare una piega sulla stoffa.
— Allora, affare fatto o no?
— Affare fatto — disse lui, guardandosi il risvolto con quella che sperava
dovesse apparire come pacata curiosità. — Affare fatto.
Mentre io controllavo i due registratori che avevamo comprato, lei estrasse
dalla tasca a cerniera sul polso della giacca il foglietto che le avevo dato. Lo aprì e
lesse silenziosamente, muovendo le labbra. Alzò le spalle. — È questo?
— Vai — dissi, schiacciando i bottoni di registrazione dei due registratori
contemporaneamente.
— Christian White — disse lei — e la sua Aryan Reggae Band.
Fedele al suo idolo fino alla morte, il nostro Ralfi. La transizione in modalità
trasmissione automatica è sempre meno violenta di quanto mi aspetti. L'ufficio
del trasmettitore pirata si trovava in una falsa agenzia di viaggio: una squallida
stanzetta a colori pastello con una scrivania, tre sedie e il poster ingiallito di una
stazione orbitale svizzera. Un paio di uccelli giocattolo, con i corpi di vetro
soffiato e gambe sottili bevevano annoiati da una tazza di materiale espanso su
uno scaffale vicino alla spalla di Molly. Mentre io entravo nell'altra modalità
accelerarono gradualmente, finché le loro creste fosforescenti non si
trasformarono in immobili archi di colore. I “led” dei secondi sull'orologio
appeso alla parete di plastica erano diventati griglie che pulsavano senza senso,
mentre Molly e il ragazzo con la faccia di Mao apparivano confusi, e le loro
braccia si agitavano ogni tanto indistintamente in movimenti-fantasma, da
insetti. Poi tutto svanì in una scarica di gelo livido e un infinito poema atonale in
linguaggio artificiale. Rimasi seduto per tre ore a snocciolare il programma
rubato al morto Ralfi.
Il viale è lungo quaranta chilometri, da un'estremità all'altra: un sovrapporsi
confuso di cupole di Fuller che coprono quella che un tempo era un'arteria
suburbana. Se le lampade vengono spente, in una giornata serena, una grigia
approssimazione della luce solare filtra attraverso strati di materiale acrilico, in
una visione simile alle Prigioni incise da Giovanni Piranesi. Gli ultimi tre
chilometri a sud coprono la Città Oscura. La Città Oscura non paga tasse né
servizi. Le lampade al neon sono spente, e le cupole geodesiche sono state
annerite da decenni di fumo dei fornelli. Nel buio quasi totale del mezzogiorno
della Città Oscura, chi si accorge di qualche ragazzino folle perso fra i piloni di
sostegno?
Ci stavamo arrampicando da due ore lungo scale di cemento e di ferro,
incastellature abbandonate su cui erano sparsi attrezzi polverosi. Eravamo
partiti da quella che sembrava una piazzuola in disuso per la manutenzione,
piena di segmenti triangolari di coperture per soffitti. Tutto era stato ricoperto
con lo stesso strato uniforme di scritte fatte con bombolette spray: nomi di
bande, iniziali, date che risalivano alla fine del secolo precedente. I graffiti ci
seguirono nella nostra ascesa, diradandosi finché un solo nome appariva
ripetuto ad intervalli. LO TEK. In maiuscole nere, gocciolanti.
— Chi è Lo Tek?
— Non noi, capo. — Si arrampicò lungo una tremante scaletta di alluminio e
svanì in un buco praticato in una lastra di plastica ondulata. — “Low
Technology”, bassa tecnologia. — La plastica le attutiva la voce. La seguii,
massaggiandomi il polso dolorante. — Per i Lo Tek quel tuo fucile da caccia è fin
troppo raffinato. Un'ora dopo mi issai attraverso un altro buco, quest'ultimo
segato rozzamente in una lastra di compensato incurvato, e incontrai il mio
primo Lo Tek.
— Tranquillo — disse Molly, sfiorandomi la spalla. — È solo Cane.
— Ciao, Cane.
Nel fascio sottile della torcia elettrica di Molly, lui ci guardò con un occhio, poi
lentamente allungò una lingua lunga e spessa, grigiastra, e si leccò i grossi canini.
Mi chiesi come si potesse definire bassa tecnologia un trapianto di denti di
dobermann. Non credo che gli immunosoppressori si trovino sugli alberi.
— Molly. — I grossi denti gli rendevano difficile parlare. Un filo di saliva gli
sgocciolava dal labbro inferiore contorto. — Sentito venire. Tanto tempo. —
Poteva avere quindici anni, ma le zanne, insieme a un mosaico di cicatrici e
all'orbita vuota, formavano il ritratto della bestialità. Per mettere insieme una
faccia del genere c'era voluto tempo e un certa qual creatività, e capii dalla sua
posa che godeva a portarla. Indossava un paio di jeans stracciati, neri per lo
sporco e lucidi lungo le cuciture. Il petto e i piedi erano nudi. Con la bocca fece
qualcosa che si avvicinava a un sorriso. — Siete seguiti, voi.
In basso, nella Città Oscura, un venditore di acqua lanciò il suo grido.
— Le corde si muovono, Cane? — Molly spostò la lampada, e vidi delle corde
sottili legate a degli anelli, che arrivavano fino al bordo e sparivano.
— Spegni quella luce del cazzo!
Molly la spense.
— Com'è che quello che vi segue non ha una luce?
— Non ne ha bisogno. Questa è la cattiva notizia, Cane. Se le vostre sentinelle
cercano di buttarlo giù, si troveranno ridotte in tanti bei pezzettini.
— È un amico, vero Molly? — Sembrava a disagio. Sentii i suoi piedi strisciare
sul compensato logoro.
— No. Ma è mio. E questo — dandomi una pacca sulla spalla — è un amico.
Capito?
— Sicuro — disse senza molto entusiasmo, andando fino all'orlo della
piattaforma, dove c'erano gli anelli. Cominciò a pizzicare una specie di
messaggio sulle corde tese.
La Città Oscura si stendeva sotto di noi come un villaggio in miniatura per
topi; piccole finestre mostravano luci di candela, con pochi riquadri più intensi
illuminati da lampade a batteria o a carburo. Immaginai i vecchi intenti a
interminabili giochi di domino, sotto le grosse gocce calde che cadevano dai
bucati stesi ad asciugare sui pali, fra le baracche di compensato. Poi cercai di
immaginarmelo mentre si arrampicava pazientemente nel buio, con i suoi
sandali e l'orribile camicia da turista, tranquillo, senza fretta. Come faceva a
seguire le nostre tracce?
— Facile — disse Molly. — Sente il nostro odore.
— Sigaretta? — Cane tirò fuori dalla tasca un pacchetto stropicciato e ne
estrasse una sigaretta appiattita. Osservai il marchio mentre me l'accendeva con
un fiammifero da cucina. Yeheyuan con filtro. Fabbrica di Sigarette Pechino.
Capii che i Lo Tek lavoravano nel mercato nero. Cane e Molly tornarono alla loro
discussione che riguardava la richiesta di Molly di servirsi di una certa porzione
del territorio Lo Tek.
— Vi ho fatto un sacco di favori, amico. Voglio quel campo. E voglio la musica.
— Tu non sei Lo Tek. .
Andava avanti così da quasi un chilometro, con Cane che ci guidava lungo
passerelle oscillanti e su per scale di corda. I Lo Tek attaccano le loro ragnatele e
le loro abitazioni alla struttura della città con grumi di resina epossidica, e
dormono sull'abisso in amache di rete. Il loro territorio è così rarefatto che in
alcuni punti consiste solo di appigli per i piedi e per le mani, ritagliati via nel
supporto delle geodesiche.
Il Campo della Morte, lo chiamava Molly. Arrampicandomi dietro di lei, con le
mie nuove scarpe da Eddie Bax che scivolavano sul metallo liscio e sul
compensato umido, mi chiesi come quel territorio potesse essere più pericoloso
del rimanente. Allo stesso tempo avvertivo che le proteste di Cane erano solo un
proforma, e che lei già sapeva che avrebbe ottenuto quello che voleva.
Da qualche parte sotto di noi Jones stava girando nella sua vasca, avvertendo i
primi sintomi della crisi di astinenza. La polizia stava interrogando i clienti
abituali del Drome , faceva domande su Ralfi. Cosa faceva? Chi era con lui prima
che uscisse? E la Yakuza stava stendendo la sua rete occulta sulle banche dati
della città, cercando pallide immagini di me stesso riflesse su numeri di conto
corrente, assicurazioni, bollette. Siamo un'economia fondata sull'informazione.
Lo insegnano a scuola. Quello che non dicono è che è impossibile muoversi,
vivere, operare a qualunque livello senza lasciare tracce, segni, frammenti di
informazione apparentemente privi di significato. Frammenti che possono
essere recuperati e amplificati. . Ma ormai il pirata doveva aver trasmesso il
nostro messaggio al satellite di comunicazioni della Yakuza, attraverso la sua
scatola nera. Un messaggio semplice: richiamate i vostri scagnozzi o rendiamo di
pubblico dominio il vostro programma.
Il programma. Non avevo alcuna idea di cosa contenesse. Non ce l'ho tuttora.
Mi limito a esporlo senza comprenderlo. Probabilmente si trattava di dati
tecnici: la Yakuza è specializzata in forme avanzate di spionaggio industriale. Un
lavoro da gentiluomini: rubano alla Ono-Sendai e chiedono cortesemente un
riscatto, minacciando di divulgare i dati e toglierle il primato delle ricerche più
avanzate. Ma perché non poteva entrare qualcun altro nel gioco? Non sarebbe
stato meglio per loro avere qualcosa da rivendere alla Ono-Sendai che un Johnny
qualsiasi di Memory Lane morto? Il loro programma era in viaggio verso un
indirizzo di Sydney, un posto dove si trattenevano le lettere per i clienti senza
fare domande, una volta pagata una modesta tariffa. Posta ordinaria di quarta
classe. Avevo cancellato la maggior parte dell'altro nastro, e nei vuoti avevo
registrato il nostro messaggio, lasciando abbastanza programma per permettere
di identificarlo come autentico. Il polso mi faceva male. Avevo voglia di
fermarmi, di stendermi, di dormire. Sapevo che presto la presa mi sarebbe
sfuggita e sarei caduto, sapevo che le scarpe nere a punta che avevo comprato
per la mia serata come Eddie Bax sarebbero scivolate e mi avrebbero fatto
precipitare nella Città Oscura. Ma lui mi appariva nella mente come un
ologramma religioso da quattro soldi, luminoso, il chip ingrandito sulla camicia
hawaiana simile alla foto aerea di un nucleo urbano da bombardare.
Così seguii Cane e Molly nel cielo dei Lo Tek, costruito con gli scarti che
neppurela Città Oscura voleva.
Il Campo della Morte era un quadrato di otto metri di lato. Un gigante aveva
intrecciato un cavo d'acciaio in mezzo a un deposito di robivecchi, e l'aveva teso
bene. Scricchiolava quando si muoveva, e si muoveva in continuazione,
ondeggiando e oscillando mentre i Lo Tek si sistemavano sulla piattaforma di
compensato che lo circondava. Il legno era argenteo per l'età, consumato e
crivellato di incisioni: iniziali, minacce, dichiarazioni di passione. Era attaccato a
una serie separata di cavi, che si perdevano nel buio dietro il bagliore bianco di
due vecchi riflettori sospesi sopra il Campo. Una ragazza con denti come quelli di
Cane saltò sulla rete, a quattro zampe. Aveva spirali viola tatuate sui seni.
Attraversò ridendo il Campo, e si azzuffò con un ragazzo che stava bevendo un
liquore scuro da una bottiglia da un litro.
Tutta la moda dei Lo Tek era nelle cicatrici e nei tatuaggi. E nei denti.
L'elettricità che rubavano per illuminare il Campo della Morte sembrava
un'eccezione alla loro regola estetica, fatta in nome di. . un rituale, uno sport,
un'arte? Non lo sapevo, ma si vedeva che il Campo era qualcosa di speciale.
Aveva l'aria di essere stato costruito nel corso di molte generazioni.
Tenevo il fucile inutile sotto la giacca. Il peso e la rigidità dell'oggetto erano
confortanti, anche se non avevo più cartucce. E mi venne in mente che non avevo
la più pallida idea di quello che stava succedendo o che avrebbe dovuto
succedere. E questo era nella natura del mio mestiere, perché avevo passato la
maggior parte della mia vita come un ricettacolo inconsapevole che viveva
unicamente per essere riempito delle conoscenze degli altri e poi prosciugato,
declamando linguaggi sintetici che non avevo mai compreso. Un ragazzo molto
raffinato. Come no.
Poi mi accorsi di quanto erano diventati silenziosi i Lo Tek. Era arrivato. Era ai
bordi dell'area illuminata, osservava il Campo della Morte e le file silenziose di
Lo Tek con la calma del turista. E mentre i nostri occhi si incontravano per la
prima volta e si riconoscevano vicendevolmente un ricordo scattò nel mio
cervello: Parigi, lunghe Mercedes elettriche che scivolavano nella pioggia verso
Notre Dame; serre mobili, facce giapponesi dietro i finestrini, e cento Nikon che
si sollevavano in un cieco fototropismo. Dietro quegli occhi che mi localizzavano,
gli stessi otturatori ronzanti. Cercai Molly Million, ma era sparita.
I Lo Tek si fecero da parte per lasciarlo salire sulla piattaforma. Lui si inchinò,
sorridendo, e si tolse i sandali, lasciandoli affiancati e perfettamente allineati, poi
posò i piedi sul Campo della Morte. Venne verso di me, attraverso la rete
ondeggiante di rifiuti, tranquillamente come un turista che attraversi una
moquette sintetica in un albergo anonimo.
Molly saltò sul Campo, muovendosi in fretta.
Il Campo urlò.
Era dotato di microfoni e amplificato, con ricevitori montati sulle quattro
grosse molle agli angoli e microfoni a contatto sparsi su frammenti arrugginiti di
macchine. Da qualche parte c'erano un amplificatore e un sintetizzatore, e riuscii
a scorgere le forme degli altoparlanti in alto, sopra gli implacabili riflettori
bianchi. Cominciò un battito di tamburi, elettronico, come un cuore amplificato,
regolare come un metronomo.
Lei si era tolta la giacca di pelle e gli stivali; aveva una maglietta senza
maniche, e sulle braccia sottili si scorgevano le deboli tracce dei circuiti di Chiba
City. I jeans di pelle rilucevano sotto i riflettori. Cominciò a danzare.
Piegò le ginocchia, i piedi bianchi appoggiati su un serbatoio appiattito di
benzina, e il Campo della Morte cominciò a ondeggiare in sintonia. Il suono che
emetteva era come quello della fine del mondo, come se i fili che ormeggiavano il
firmamento stessero per spezzarsi e attorcigliarsi nel cielo.
Lui si lasciò dondolare per il tempo di qualche battito di cuore, poi si mosse,
calcolando alla perfezione i movimenti del Campo, come un uomo che passi da
una pietra all'altra del sentiero di un giardino ornamentale.
Si tolse la punta del pollice con la grazia di un uomo abituato ai gesti in
società, e la gettò verso di lei. Sotto i riflettori, il filamento era un frammento
sottilissimo di arcobaleno. Lei si gettò stesa sulla rete e rotolò rialzandosi
mentre il filò monomolecolare le passava sulla testa, le unghie di acciaio che
balenavano per un attimo, in quella che doveva essere una reazione di difesa
automatica. Il battito di tamburi si fece più rapido, e lei prese a saltare insieme
ad esso, i capelli neri scarmigliati attorno alle lenti d'argento, le labbra sottili
tese nella concentrazione. Il Campo della Morte tuonava e ruggiva, e i Lo Tek
urlavano emozionati. Lui ritrasse il filamento, trasformandolo in un cerchio di
policromia spettrale largo un metro, e lo fece girare davanti a sé, la mano senza
pollice tenuta al livello dello sterno. Uno scudo. E Molly parve lasciar andare
qualcosa, qualcosa dentro di lei, e quello fu il vero inizio della sua danza folle.
Saltò di lato, contorcendosi, e atterrò con entrambi i piedi su un blocco motore in
lega collegato direttamente ad una delle molle. Mi misi le mani sugli orecchi e
caddi in ginocchio in una vertigine di suono, pensando che il Campo e le panche
stessero precipitando verso la Città Oscura, vedendoci piombare sulle baracche,
sul bucato steso ad asciugare, esplodere sulle piastrelle come frutti marci. Ma i
cavi resistettero, e il Campo della Morte iniziò ad alzarsi e abbassarsi come un
pazzesco mare di metallo. E Molly vi danzava sopra. Alla fine, un istante prima
del suo lancio finale, vidi qualcosa sulla faccia dell'uomo, un'espressione che
sembrava non appartenergli. Non era paura, e non era rabbia. Credo che fosse
incredulità, stupefatta incomprensione unita a ripugnanza per quello che vedeva
e sentiva. . per quello che gli stava succedendo. Ritrasse il filamento roteante, e il
disco scintillante si ridusse alle dimensioni di un piatto, mentre portava la mano
sulla testa e l'abbassava, la punta del dito che si curvava verso Molly come una
cosa viva.
Il Campo la fece scendere, e il filo le passò appena sopra la testa; il Campo
sobbalzò come per una frustata, sollevandolo sul tragitto del filo teso. Avrebbe
dovuto passargli sopra la testa e venir ritratto sul suo rocchetto di diamante. Gli
tagliò la mano appena dietro il polso. C'era un buco nel Campo, proprio davanti a
lui, e ci si buttò come un tuffatore, deliberatamente con una strana grazia: un
kamikaze sconfitto che scendeva sulla Città Notturna. In parte, credo, scelse di
farlo per guadagnarsi la dignità di pochi secondi di silenzio. Lei l'aveva ucciso
con uno shock culturale.
I Lo Tek urlarono, ma qualcuno spense l'amplificatore, e Molly rimase sul
Campo, oscillando sempre più adagio, la faccia bianca e inespressiva, finché si
sentì solo lo scricchiolio del metallo sotto sforzo, e il grattare della ruggine
contro la ruggine. Cercammo la mano tagliata sul Campo, ma non la trovammo.
L'unica cosa che trovammo fu un aggraziato taglio ricurvo in un pezzo di metallo
arrugginito, dove era passato il filo monomolecolare. Il bordo della ferita era
brillante come una cromatura nuova.
Non riuscimmo mai a sapere se la Yakuza aveva accettato le nostre condizioni
o se aveva ricevuto il messaggio. Per quel che ne so io, il loro programma sta
ancora aspettando Eddie Bax, su uno scaffale nel retro di un negozio di articoli
da regalo, al terzo livello di Sydney Central-5. Probabilmente hanno rivenduto
l'originale alla Ono-Sendai qualche mese fa. Ma probabilmente hanno ricevuto la
trasmissione pirata, perché nessuno è ancora venuto a cercarmi, ed è passato
quasi un anno. Se verranno dovranno farsi una lunga arrampicata, al buio, oltre
le sentinelle di Cane, e da qualche tempo a questa parte non assomiglio più
molto a Eddie Bax. Ci ha pensato Molly, con un'anestesia locale. E i denti nuovi
mi sono quasi ricresciuti. Ho deciso di rimanere quassù. Quando ho guardato il
Campo della Morte, prima del suo arrivo, ho visto quanto fossi vuoto. E ho capito
che ero stufo di essere un ricettacolo. Perciò adesso scendo a trovare Jones,
quasi ogni notte.
Adesso siamo soci, io, Jones e Molly Million. Molly cura i nostri affari al Drome.
Jones è ancora al luna park, ma ha una vasca più grande, con acqua fresca che gli
portano con una cisterna dal mare ogni settimana. E può avere la roba quando
ne ha bisogno. Parla ancora insieme ai bambini, con le sue lampadine, ma parla
anche con me per mezzo di un'unità display, in una baracca che ho affittato lì:
un'unità migliore di quelle che usava nella Marina. E ci facciamo tutti un sacco di
soldi, più di quelli che facevo prima, perché lo squid di Jones legge le tracce di
qualunque cosa è immagazzinata dentro di me e la traduce sull'unità display in
linguaggi comprensibili. Perciò stiamo scoprendo un sacco di cose sui miei ex-
clienti. E un giorno mi farò estrarre da un chirurgo tutto il silicio che ho nelle
amigdale, e vivrò con i miei ricordi e con quelli di nessun altro, come fanno tutti.
Ma non subito. Nel frattempo sto benissimo quassù, nell'oscurità, a fumare una
sigaretta cinese col filtro e ad ascoltare le gocce di condensa che cadono dalla
cupola. È molto tranquillo quassù. . A meno che un paio di Lo Tek non decidano
di ballare sul Campo della Morte. Ed è anche istruttivo. Con Jones che mi aiuta,
sto diventando il tipo più tecnico del giro.